Incontro Battista venerdì sera all’interno del “Percorso della memoria”allestito nella piazza della chiesa dai noi ragazzi e ragazze del campeggio per i diritti umani di Amnesty International. Con questa rappresentazione, fatta di oggetti, parole, fotografie, abbiamo cercato di ripercorrere il viaggio dei migranti, dalla partenza sino al loro arrivo, momento in cui si profilano le due facce dell’accoglienza: il soccorso congiunto delle varie forze dell’ordine e delle associazioni umanitarie da un lato, e la detenzione presso i C.I.E. dall’altro, che li imprigiona in quanto accusati di reato di clandestinità. Per alcuni si prospetta un altro bivio durante il percorso: il non-arrivo, destinato a coloro che purtroppo non ce la fanno.
Battista lavora nel corpo dei Vigili del Fuoco e guardando gli scalini vuoti della chiesa mi dice che nel periodo tra febbraio e marzo i migranti si accampavano un po’ ovunque e su quegli scalini si sdraiavano per dormire, ricoprendoli completamente, tanto che i fedeli dovevano utilizzare entrate alternative per recarsi a messa la domenica mattina. La piazza è spaziosa e semi-vuota adesso, difficile immaginare una tale calca di persone ammassate ovunque.
Il vigile del fuoco mi racconta di aver partecipato a molti interventi di soccorso, il suo tono si fa serio e accorato. Ha visto tante gente in condizioni disperate arrivare per mare cercando salvezza. Molto spesso lui e i suoi colleghi hanno recuperato donne con piccoli neonati, che piangevano senza sosta, perché non avevano avuto acqua né cibo per almeno tre giorni, in mezzo a quel mare grande fatto d’acqua e pesci. Me lo dice con tanta dolcezza perché, dice, quando quelle creature le hai davanti agli occhi, ti si stampano dentro e non te le scordi più. Racconta che ad alcune donne capita di partorire durante il viaggio, in mezzo a duecento-trecento persone, tante quante i trafficanti riescono a stiparne in quei vecchi pescherecci dismessi. Alcune donne in stato di gravidanza giungono con il travaglio già in corso e vengono accolte presso il poliambulatorio di Lampedusa, che non ha un reparto attrezzato di ostetricia, ma dove i vari medici presenti insieme a quelli della ONLUS Medici Senza Frontiere, assistono molte partorienti come meglio possono ed hanno aiutato a nascere molti piccoli migranti.
Strana isola Lampedusa, dove le migranti partoriscono, quasi per caso, perché la vita non può aspettare, preferendo rischiare tutto, la propria salute e quella di un figlio non ancora nato, pur di fuggire da terre in guerra, inospitali, dove la legge è la tortura, e il futuro promette solo fame e ingiustizia; strano posto, i cui abitanti preferiscono programmare il cesareo presso gli ospedali di Palermo, Agrigento, Catania, perché impossibile da praticare negli ambulatori di Lampedusa dove non esiste una sala operatoria, per non incorrere in alcun rischio, preferendo ricoverarsi in strutture attrezzate per ogni imprevisto, affrontando costi altissimi, da cinque fino a diecimila euro, per far nascere un figlio.
Battista mi parla tristemente anche di quelli che non ce l’hanno fatta. Sono tanti, migliaia, non lo sapremo mai, dispersi in questo grande mare fatto d’acqua e pesci. A volte rimangono impigliati nelle reti dei pescatori e loro li riportano a riva, legandoli con una corda alla barca. I vigili del fuoco ne hanno raccolti tanti, lasciati sulla banchina del porto o avvistati in qualche spiaggia o in mezzo agli scogli. Mi racconta che esiste un posto all'interno del cimitero dell'isola dove portano i migranti che non ce l'hanno fatta, una specie di fossa comune, dove vengono sepolti i senza-nome. Nel cimitero si trova anche la tomba di una giovane ragazza nigeriana deceduta durante il viaggio, mentre il governo italiano e quello di Malta facevano a ping-pong per scaricarsi a vicenda la responsabilità di ricevere i migranti.
Battista ne ha viste davvero tante, vite di migranti sospese al filo della speranza. Lui e i lampedusani lo sanno che sono povera gente, e quelli che non lo vogliono capire, è perché non hanno visto con i loro occhi. Vuole condividere con me una storia a lieto fine, perché siamo diventati un po’ tristi. Mi racconta di una notte dei primi giorni di marzo duemilaundici. La Guardia Costiera aveva individuato una barca di migranti nei pressi di Cala Galera, la caletta rocciosa adiacente al campeggio dove siamo alloggiati per il campo di Amnesty International. I Vigili del Fuoco erano stati chiamati per coadiuvare i soccorsi. Battista era lì in piedi, sopra le rocce, dice che le onde erano alte fino a otto metri e la barca era stracolma di persone, poteva rovesciarsi da un momento all’altro. Le operazioni di soccorso erano difficilissime, Battista mi confessa di aver pensato che non ce l’avrebbero mai fatta a salvarli. Ad un tratto un’onda gigantesca ha sollevato la barca da sotto con una forza immensa e l’ha poggiata sopra le rocce, ritirandosi. I migranti sono tutti scesi dall’imbarcazione senza neanche un graffio. Battista mi dice che quella fu una scena incredibile, da far venire i brividi. Certe cose non si possono credere se non le vedi con i tuoi occhi, dice, è stato un vero miracolo. Poco dopo l’imbarcazione fu distrutta dal mare in tempesta, ma i resti sono ancora là sotto il mare, a Cala Galera. Credo a Battista, che ha visto con i suoi occhi e mi vengono i brividi.
Quante storie di migranti sono a lieto fine e quante no?
Resti presso "il cimitero delle barche" vicino al porto - Foto Maria Angela Rocchi
La maggior parte di noi campeggiatori è appena rientrata da Lampedusa, quando domenica 31 agosto riprendono gli arrivi dei migranti. La settimana successiva è segnata da eventi tragici: durante i soccorsi di un natante con a bordo 296 migranti, vengono scoperti 25 cadaveri all’interno della stiva. Insieme alla Guardia Costiera e alla Guardia di Finanza i Vigili del Fuoco si occupano del recupero dei corpi.
Scossa dalla notizia, contatto Battista al telefono.
Mi riferisce che i soccorsi sono iniziati alle 4 del mattino e che i corpi sono stati prelevati dai vigili del fuoco provvisti di auto protettori. I vigili sono tornati in caserma alle 6.30, stremati. I colleghi hanno raccontato di aver visto uno spettacolo agghiacciante, stentavano ad entrare nella stiva, c’era un caldo insopportabile ed hanno dovuto tirar su i corpi uno per uno con delle corde, è stato un lavoro massacrante. “Vedere una scena del genere, morti per niente, povera gente indifesa”, mi dice Battista, “sembravano tonni quando si fa la mattanza”. Battista mi aveva raccontato di altre volte in cui i cadaveri di alcuni migranti erano stati ritrovati a riva o tra gli scogli, o portati da pescherecci, ma “una scena così tremenda”, dice ancora Battista, “non l’avevano mai vista prima”. L’autopsia disposta dalla Procura di Agrigento su due dei 25 corpi ha stabilito che i migranti hanno ricevuto colpi di bastone mentre cercavano di risalire attraverso la botola, respinti dagli altri perché non c’era più posto sul ponte e la barca avrebbe rischiato di rovesciarsi.
Il bollettino di questa che appare una lotta estrema per la sopravvivenza parla di 271 sopravvissuti, portati in questura con l’accusa di omicidio colposo e di 23 nigeriani e 2 somali tutti sotto i 30 anni, che non ce l’hanno fatta. Sei di loro, sono stati seppelliti a Lampedusa, nel cimitero di cui Battista mi aveva parlato, e gli altri 19 nei cimiteri in provincia di Agrigento. I sopravvissuti sono stati trasferiti nel C.I.E. di Contrada Imbriacola e, i minori, alla ex base Nato Loran.
I giorni seguenti portano altre cattive notizie, Battista mi tiene aggiornata per telefono: una barca col motore in avaria in acque libiche non ha ricevuto soccorsi, nonostante una nave Nato si trovasse a sole 27 miglia di distanza; i migranti sono rimasti per giorni fermi in mare prima che fossero raggiunti dalla Guardia Costiera italiana. I migranti a bordo hanno raccontato di decine di morti, forse un centinaio, buttati in mare, soprattutto donne e bambini, i più deboli che non hanno resistito alla sete, al caldo, alla fame. Il cadavere di un ragazzo è stato portato a terra e per ore le ambulanze hanno fatto la spola tra la banchina del porto e il poliambulatorio, per soccorrere i migranti giunti in condizioni pessime e affidati alle cure della Croce Rossa e di Medici Senza Frontiere. Vi erano anche due ragazze in stato di gravidanza che sono state trasportate in elicottero in un ospedale siciliano, per minaccia di aborto. Battista mi racconta tutto con tanta partecipazione: “sono innocenti che salgono sulle barche senza rendersi conto del viaggio che vanno affrontando”.
Ha ragione Battista, sono persone innocenti, che si affidano a trafficanti di vite umane, per inseguire la speranza di una vita migliore, lontana dalla guerra e dalla fame, oltre quel mare grande fatto d’acqua e pesci, e fatto anche di persone, migranti, che lo attraversano, quel “mare nostrum” che è diventato anche il loro, strada che rende liquidi i confini, dove le vite e i destini si mescolano in cerca di aiuto. Queste persone sperano nel nostro aiuto, e noi europei, che prendiamo decisioni di guerra e pace, sopra nazioni e singoli destini, di ricchi potenti così come di povera gente comune, li rinchiudiamo per mesi dentro ai C.I.E., come fossero pericolosi criminali.
E’ davvero un paradosso che una nave Nato, impegnata in una guerra contro il regime di Gheddafi, a sostegno della rivoluzione democratica del popolo libico, lasci morire in mezzo al Mediterraneo centinaia di persone senza rispondere al loro SOS. Lampedusa è una piccola striscia di terra in mezzo al mare, ma una grande cartina di tornasole di tutte le contraddizioni della politica italiana ed europea.
E’ assurdo che a Lampedusa non nasca nessun italiano dagli anni ’90, mentre nascono piccoli migranti, ma senza patria, perché l’Italia non prevede lo “ius soli”. I lampedusani sono costretti a viaggiare per far nascere i propri figli e ad affrontare pesanti spese, mentre i migranti rischiano di morire per far nascere i propri figli in una terra che non è la loro, ma in cui sperano di essere accolti.
I lampedusani come Battista l’hanno capito che la vita va accolta, non respinta, quella vita che chiede più attenzione e umanità: il governo italiano risponda alle esigenze di cittadini che vivono in condizioni di isolamento insulare, se non con un ospedale specializzato, almeno con aiuti economici per usufruire dei servizio sanitario altrove; e la smetta di battere “pugni di ferro” e sia portavoce in Europa di una nuova politica di accoglienza adeguata a chi ha l’unica colpa di essere nato in luoghi ostili alla vita e di migrare in cerca di un futuro migliore.
- Maria Angela Rocchi -
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