La settimana a Lampedusa è stata talmente intensa che non sono riuscita a scrivere quanto avrei voluto. Cerco allora di radunare qui i tanti, piccoli frammenti di Lampedusa che ho accumulato in questi giorni. Non ho alcuna pretesa di oggettività su quello che scrivo, mi sarebbe piaciuto poter rimanere più a lungo sull’isola per conoscerla meglio e mettere alla prova le idee che mi sono fatta, ma il tempo che avevo è corso via più velocemente di un fiume in piena e tutto ciò che rimane sono impressioni, dettagli, emozioni e voci di gente.
Prima impressione
Dall’aereo, Lampedusa sembra avere qualcosa di arabo nel suo modo di stare al sole, battuta da tutti i venti, con le sue case molto fitte e colorate dai tetti piatti. L’aeroporto si trova in una zona chiamata Punta Sottile (un vero e proprio corridoio di terra attraversato dalla pista di atterraggio) e il sole, già basso, illumina il suolo di una luce che lo fa arrossire. Tutto è polvere, roccia, cespuglio. Non ci sono molti alberi e quelli che ci sono assumono un atteggiamento nobile, per via della loro irrimediabile solitudine. Ci accolgono all’aeroporto, salutiamo quelli che saranno i nostri compagni di viaggio e ci avviamo sulla strada che porta al campeggio.
Nel petto, un impercettibile battito d’ali. Mi piace stare qui.
Lampedusa terra da difendere
Il giorno dopo, abbiamo il piacere di conoscere Giusy Nicolini, rappresentante di Legambiente a Lampedusa. Ci racconta che un tempo l’isola era coltivata, ma che in seguito, probabilmente sotto il regno dei Borboni, ha avuto inizio un lento e inesorabile fenomeno di disboscamento che ha lasciato l’isola desertificata, dal suolo ormai indurito e inospitale. Non c’erano più nemmeno ginepri e corbezzoli (di corbezzolo ne rimane soltanto uno in tutta l’isola) e agli abitanti di Lampedusa rimase solo la pesca…finché non si comprese l’immenso potenziale turistico dell’isola… Legambiente si è battuta contro l’inflazione turistica, perché la tendenza a considerare il turismo come l’unica salvezza dell’isola potrebbe essere fatale per il suo futuro. L’abuso edilizio, lo sfruttamento della natura fino all’ultima goccia di linfa, l’abbandono delle spiagge al settore privato sono sicuramente fattori che, a lungo andare, porterebbero l’economia di Lampedusa al suicidio. Nel 1981 fu istituita a Lampedusa la Riserva Naturalistica dell’isola dei Conigli, l’unica riserva in Italia a essere istituita sotto la richiesta popolare di 1500 firme. Questo non bastò, tuttavia, a salvare l’isola dalla voracità della speculazione. Fino al 1996, la spiaggia dei Conigli rimase in pessime condizioni (c’era addirittura la possibilità di ingresso motorizzato fino a riva). Con molti sforzi, Legambiente riuscì finalmente a tenere sotto controllo la situazione della Riserva, “ripulendola” e permettendole di tornare a essere una delle più belle baie d’Italia. Ora sulla spiaggia ci sono regole chiare: la spiaggia è libera, e di notte appartiene alla tartaruga (che proprio in questa stagione viene a deporvi le uova). Una bella vittoria per Lampedusa, che sembra aver capito l’importanza di un ambiente sano per un’economia sostenibile nel lungo periodo.
Verso sera, il gruppo si reca in paese per assistere alla proiezione del film “Soltanto il Mare” di Dagmawi Yimer, regista etiope che più volte ha collaborato con Amnesty International. Il film racconta di come Dag, sbarcato a Lampedusa nel 2006, ha vissuto l’isola e i suoi abitanti, le vicissitudini di Lampedusa dell’inverno scorso. Un film davvero da consigliare a chi non conosce Lampedusa e tende a vederla come un piccolo lembo di terra infestato dai migranti e dal razzismo dei residenti.
All’uscita dalla sala parrocchiale, delle vecchie coppie ballavano il liscio sulla piccola piazzetta di fronte.
Abbracci impossibili
Lunedì mattina, un inaspettato acquazzone ci ha costretti a rimandare la visita all’isola dei Conigli. Non mi è dispiaciuto per niente, perché in cambio ci è stata data l’opportunità di partecipare a un piccolo presidio in solidarietà ai migranti organizzato davanti al C.I.E. di Imbriacola. Forse anche per colpa della pioggia, il presidio è stato davvero “piccolo”, ma l’emozione, al contrario, enorme. Un posto di blocco sorvegliato dalla guardia di finanza ci impediva di avvicinarci ai cancelli del centro. Il motivo? Forse, come ci ha spiegato poi nel pomeriggio un carabiniere della base per minori Loran (un distaccamento del C.P.S.A. di Lampedusa, situato anch’esso a Imbriacola), si temeva che alla nostra vista i migranti si agitassero troppo. Qui, secondo me, la sintesi di tutte le ingiustizie che gli immigrati clandestini subiscono nel nostro paese. Uomini, donne e bambini arrivati in Italia e automaticamente rinchiusi in centri di prima accoglienza dove, di fatto, vivono come detenuti senza aver commesso alcun reato.
Molto difficile è entrare nel centro, e ancor più difficile uscirne. La distanza fra noi era breve, e insopportabile.
Nel pomeriggio, la scena si ripete davanti alla base Loran. Ci viene chiesto di allontanarci e, questa volta, di presentare i nostri documenti. Il mare era calmo e il cielo ormai spalancato all’azzurro, ma i nostri sguardi si impigliavano senza sosta nella rete del centro, dall’altra parte della quale tutti i ragazzi presenti al centro ci guardavano. Noi qui, loro lì, dietro la rete, dall’altra parte del mondo.
Ci raggiungono le rappresentanti di Terres des Hommes, che grazie ad un progetto hanno la possibilità di entrare tre volte a settimana nel centro.
Alessandra, avvocato, ci da alcune informazioni riguardo le condizioni dei minori “detenuti”. Attualmente sono 169, tutti maschi fra i 14 e i 17 anni, e con loro ci sono altri due migranti, adulti. Vengono per la maggior parte dall’Etiopia, dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla Nigeria, dal Mali e dalla Tunisia. Per arrivare fin qui, sono tutti passati dalla Libia. Sono tutti minori non accompagnati (se fossero accompagnati, verrebbero ospitati assieme alle famiglie nel C.P.S.A. di Imbriacola). Nessuno di loro è stato affidato ad un tutore, come per legge dovrebbe essere. Rinchiusi nel centro senza alcun titolo giuridico, rimangono nel centro per qualche tempo (ci sono stati casi di ragazzi trattenuti per 55 giorni), per poi essere trasferiti verso delle case d’accoglienza sparse in tutta Italia (o verso le cosiddette “strutture ponte”, che se ne occuperanno in attesa di un nuovo trasferimento). Le condizioni all’interno del centro sono molto precarie: non vi sono passatempi oltre a quelli che da soli i ragazzi si ingegnano a creare, le condizioni igieniche sono scarse e non vi sono, alla base Loran, cabine telefoniche a disposizione (ci sono due cellulari, ma non è facile riuscire a captare la rete). Nel centro entrano, oltre a Terres des Hommes, alcune altre organizzazioni autorizzate. Fra queste, la Croce Rossa, l’Unhcr e Save the Children (con la quale abbiamo avuto un incontro giovedì sera).
La tristezza è molta, nell’ascoltare le parole di Alessandra, e i lunghi, silenziosi, clandestini saluti a distanza che ci siamo scambiati con i ragazzi del centro serrano la gola lungo la strada del ritorno.
Un’introduzione al quadro legislativo italiano in materia di immigrazione con Alessandra
La parola “clandestino” significa, etimologicamente, “colui che si nasconde alla luce del sole”. Qui, la mia opinione si discosta da quella del resto del mio gruppo. Io non ci trovo nulla di brutto in questa parola, è semplicemente una parola disgraziatamente caduta nelle reti del linguaggio mediatico, che l’hanno trasformata in un insulto quando in sé per sé descrive solo una situazione di fatto. Nascondersi dalla luce del sole, dallo Stato e dalla legge è una necessità per oltre un milione di persone in Italia. Perché entrare legalmente in Italia per qualcuno può essere difficilissimo, se non impossibile.
Ottenere visti d’ingresso è un’impresa. Se dichiari di voler un visto di turismo, i controlli saranno talmente stretti attorno alle tue capacità economiche, alla tua situazione lavorativa e familiare, che ti costerà molta fatica ottenerlo. Tanto vale dire la verità: serve un visto di lavoro. Il problema, qui, è che ottenere un visto di lavoro è cosa molto più ardua. Esistono i flussi di assunzione internazionale, la cui portata è decisa direttamente da Confindustria (regione per regione, si decide quanti posti di lavoro offrire e per quali categorie). Di fatto questi flussi servono a regolarizzare la situazione di molti lavoratori immigrati già presenti sul suolo italiano. Un controsenso, un’ipocrisia legislativa, che per di più pone sul cammino dello straniero in cerca di regolarizzazione infiniti ostacoli burocratici. Il “futuro” datore di lavoro presenta la domanda in Prefettura, che la trasmette alla Questura. Lì vengono controllati le fedine penali del datore e dell’aspirante lavoratore, nonché i redditi del primo (che deve risultare in grado di pagare lo stipendio e i contributi per il dipendente). Se la procedura funziona, si emana il nulla osta (con una validità di sei mesi) che va inviato nel paese d’origine del migrante. Quest’ultimo deve tornare, clandestino, nel proprio paese per poter ritirare il visto di lavoro dall’ambasciata. A questo punto, lo straniero è legittimo titolare di un permesso di soggiorno a fini di lavoro. Nel caso perdesse il lavoro, ha sei mesi per trovarsene un altro, o il permesso di soggiorno perde validità.
Un altro modo per regolarizzare un lavoratore clandestino è la cosiddetta “sanatoria”. In periodi di tempo fissati, il datore di lavoro può autodenunciarsi per aver favorito l’immigrazione clandestina offrendo lavoro in nero. Dopo aver pagato una multa di 500 euro, il dipendente potrà forse ottenere un permesso di soggiorno.
Ma la più grande vergogna, per l’Italia, sono le espulsioni. La legge Bossi-Fini del 2002 impone che tutte le espulsioni vengano attuate tramite accompagnamento coatto alla frontiera (una volta, questa procedura veniva usata solo per i soggetti resisi colpevoli di reati). Un’espulsione di questo tipo, visto che necessita spesso di un volo intercontinentale e di una scorta pagata, può costare anche 20.000 euro. naturalmente non ci sono i soldi per applicare la legge. Si da allora al migrante un foglio (che i clienti di Alessandra hanno efficacemente ribattezzato “foglio di via”) con l’ordine di lasciare il territorio nazionale entro 5 giorni. Le spese per il viaggio vengono così automaticamente accollate all’espulso. Nel caso in cui la situazione individuale del migrante non sia chiara (per esempio, non si conosce il paese di provenienza), lo sfortunato viene rinchiuso in un C.I.E. (questa settimana, verrà molto probabilmente approvato un decreto legislativo che allunga il tempo di possibile detenzione da 6 a 18 mesi). La detenzione, in questo caso, è una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, in quanto non giustificata da un reato commesso.
Amnesty e Lampedusa
Come ci racconta Giusy D’Alconzo, ricercatrice di Amnesty in materia di immigrazione, l’immigrazione clandestina raggiunge le coste di Lampedusa all’inizio degli anni 2000. Prima di allora, la maggior parte degli stranieri entrati in Italia via mare proveniva dai Balcani e dal vicino oriente, e una delle rotte privilegiate era quella dello stretto di Otranto, in seguito chiusa. È molto importante però precisare che, nel totale dei migranti clandestini, solo una minima parte (dal 4% al 10%) arriva via mare, e la maggior parte di essi è rappresentata da profughi e rifugiati. I migranti cosiddetti “economici” tendono ad arrivare via terra, varcando le frontiere del nord Italia.
A Lampedusa, i primi migranti sono accolti con benevolenza. Non faccio nessuna fatica a crederlo, perché in questi pochi giorni mi è capitato di sfiorare delle persone incredibilmente disposte a incontrare l’altro, e forse, discretamente, a condividerne il dolore. La situazione cambia nel 2004-2005, quando la politica si rende conto che creare un po’ di sano allarmismo sugli “sbarchi” clandestini può far bene a tutti. Sia da destra che da sinistra, gli sbarchi cominciano a essere percepiti come qualcosa da rinfacciare ai propri avversari politici, e fermare gli sbarchi sembra essere ormai diventato una missione da portarsi all’occhiello, come fosse un fiore. All’inizio, i C.P.T. non erano aperti a nessuno, nemmeno Amnesty International poteva entrarvi. Nonostante questo, e forse anche a causa di questo, l’associazione comincia a fare ricerche sul campo, soprattutto grazie alle testimonianze di migranti che da Lampedusa sono passati.
Nel febbraio 2006 esce il rapporto di Amnesty “INVISIBILI”, dove si denuncia la presenza di molte centinaia di minori nei flussi migratori, che ricevono lo stesso trattamento degli adulti e che non compaiono nelle statistiche ufficiali. Dopo un’altra richiesta per entrare nel C.P.T. di Lampedusa (anch’essa respinta), Amnesty continua a tessere rapporti con le associazioni locali di assistenza e a raccogliere interviste di immigrati. Per caso, mentre i mass media cominciavano ad invadere l’isola, Amnesty scopre l’esistenza di Alternativa Giovani, una piccola associazione di giovani lampedusani che cerca di dare un’immagine diversa della loro terra rispetto a quella fornita dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione. Insieme, le due associazioni organizzano un convegno sull’isola (“Lampedusa terra di diritti umani”) e Amnesty fa partire una campagna su Lampedusa che, con 50.000 firme, convince il ministero dell’Interno a richiedere un incontro. Si ottengono alcuni risultati, come l’obbligo della determinazione dell’età dei migranti attraverso esami medici come la lastra del polso (ora, in seguito a delle ricerche, si è trovato delle falle in questo tipo di test, che pertanto non può più essere legalmente usato).
Dal 2006 al 2009, Lampedusa torna a essere un luogo di transito, i migranti non vengono più trattenuti a lungo sull’isola. I trasferimenti si fanno veloci e nasce il cosiddetto “modello Lampedusa” che serve da esempio ad altre zone d’Italia e d’Europa. Nel frattempo, Amnesty ottiene l’autorizzazione a visitare i centri dove sono ospitati i migranti in attesa di trasferimento e, insieme ad Alternativa Giovani, riesce ad ottenere un progetto educativo nelle scuole.
Nel 2008, il flusso migratorio che tocca Lampedusa è aumentato rispetto agli anni precedenti. Il ministro Maroni, con il decreto 12.5 del 2009, stabilisce che le persone non verranno più trasferite: tutte le valutazioni dei singoli casi verranno effettuate direttamente a Lampedusa. Nel febbraio 2009, Amnesty può constatare con i suoi occhi che questo ha provocato un enorme sovraffollamento sull’isola. Il sistema-Maroni (finalizzato ufficialmente a velocizzare i processi di espulsione) fallisce, e si cerca di rimediare con i respingimenti (facilitati dal vergognoso accordo di amicizia Italia-Libia, ratificato nel 2008 dal Parlamento con il 90% dei voti favorevoli).
Arriva poi la primavera araba, e com’è normale in ogni momento storico particolarmente cruciale, il flusso migratorio (specialmente dalla Tunisia) s’ingrossa ulteriormente, anche grazie alla diminuzione dei prezzi del traffico d’uomini (causata a sua volta dalla rischiosità della rotta libica). Così, quest’inverno, più di 6000 migranti vengono bloccati sull’isola per settimane (il Governo ha nuovamente bloccato i trasferimenti). Il C.I.E. di Lampedusa, che ha una capienza di circa 2000 persone, non basta ad ospitare tutti. I migranti si riversano nelle strade di Lampedusa, dormono all’aperto, mangiano quello che possono, cercano di far trascorrere il tempo. Nel frattempo, innumerevoli giornalisti e operatori si precipitano a Lampedusa per filmare in diretta “l’emergenza”. Dai racconti delle persone che abbiamo incontrato, in quel periodo l’isola era scossa, perplessa, si sentiva soffocare (il che è comprensibile, se si considera che sono appena 6.000, gli abitanti di Lampedusa). Tutti erano arrabbiati. Ma, almeno dalle testimonianze di Vincenzo, Salvatore, Pietro, don Stefano, i ragazzi di A.G. e molte altre persone con cui non ho potuto parlare direttamente, la rabbia era rivolta principalmente al Governo, che tardava (forse volontariamente) a prendere dei provvedimenti.
Vincenzo e Porta d’Europa
È fine pomeriggio, soffia uno scirocco che porta meduse alla spiaggia e caldo umido sulla pelle. Camminiamo senza meta per le strade di Lampedusa, con un appuntamento per le 7 a Porta d’Europa. Abbiamo voglia di parlare, conoscere gente, stare con i lampedusani, ma solo poche ore a disposizione. Nella zona del porto vediamo tre signori sui sessanta vicino ad un bel peschereccio (la “Flavia”, come si presenta la scritta sul fianco) dipinto di bianco e azzurro. Con la scusa di chiedere indicazioni (anche se Antonino, di Alternativa Giovani, ci ha spiegato perfettamente dove si trova porta d’Europa) ci avviciniamo al primo signore e attacchiamo discorso.
Senza alcuno sforzo da parte nostra per spingere la conversazione oltre il semplice “mi scusi/grazie” , il signor Vincenzo si mette a raccontare la storia del monumento, spiegandoci che è stato costruito due anni fa sull’estrema punta sud di Lampedusa (quella che le imbarcazioni dei migranti cercano di raggiungere) per dare il benvenuto ai nuovi arrivati e per commemorare quelli che sono naufragati nel segreto del Mare prima di poter essere soccorsi. Vincenzo non ha niente contro i migranti, nemmeno contro quelli che lo scorso inverno hanno invaso l’isola creando un certo disagio alla popolazione. Come molti, qui, crede che la crisi sia stata creata volontariamente dal Governo italiano (che ha bloccato i trasferimenti, lasciando che il centro d’accoglienza di Lampedusa, e poi le sue strade, si gonfiassero di migranti esasperando la situazione) per ricevere fondi dall’Unione Europea.
Durante i mesi “caldi” dell’emergenza, i migranti stavano e dormivano dappertutto, anche sotto le barche. Vincenzo, al quale dei ragazzi tunisini hanno “sequestrato” la scialuppa per due settimane, non si lamenta e sembra provare comprensione più che astio, pietà più che paura. La sua rabbia è per il governo, che ha lasciato l’isola da sola, e per i mass media, che “hanno parlato troppo e troppo poco di quello che avveniva a Lampedusa). Troppo del caos, del disordine, del sovraffollamento. Troppo poco dei veri problemi dell’isola e di ciò che molti lampedusani hanno fatto per aiutare i migranti. “Certo”, prosegue Vincenzo, “la situazione poteva scoppiare in ogni momento, bastava tanto così”… ma questo non è avvenuto. Dopo una lunga conversazione e qualche scambio di battute, ci accomiatiamo dal pescatore con un sorriso e cerchiamo di raggiungere porta d’Europa.
Lo ritroviamo poco dopo, con la macchina (voleva forse sapere se eravamo riusciti a trovare il luogo dell’appuntamento?), e ci scorta fino al monumento.
Al tramonto, con tutti i nostri compagni seduti sulla roccia e i ragazzi di Alternativa Giovani che ci spiegano come la loro piccola e potente associazione (nata in seno al liceo scientifico dell’isola) cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica locale sui problemi del migrante, Porta d’Europa si riempie di sole. L’orizzonte, guardato da sud, è dolorosamente bello e sembra annunciare nuovi arrivi. Una frase, pronunciata da qualcuno dei ragazzi di A.G., rende comunicabile ciò che ho pensato in quel momento: “il prossimo non è solo colui che abbiamo immediatamente accanto, ma anche colui che sta per arrivare.”
Don Stefano
È sera, ci rechiamo tutti in parrocchia per ascoltare la testimonianza di don Stefano riguardo gli avvenimenti dello scorso inverno. Un uomo corpulento, di grandi mani e occhi scuri, che si veste volentieri di blu (o almeno credo, perché le tre volte che l’ho incrociato in strada era vestito di blu) e che parla un italiano attraversato da vivaci sfumature siciliane. Ci racconta di come le persone hanno vissuto inverno e primavera, qui a Lampedusa. Non è stato facile per nessuno. Ci sono stati momenti di fortissima tensione, come quando, il 20 maggio, un gran numero di lampedusani ha protestato contro l’arrivo di tende per i migranti. Fra me, mi ripeto che non posso sperare che tutti siano come Antonino e gli altri di Alternativa Giovani, e che in un’isola così piccola da non avere un ospedale è normale che la gente si senta “invasa” dalla permanenza di così tanti migranti. Don Stefano ci tiene però a ricordare che non c’è mai stata violenza. Nemmeno un atto vandalico, nemmeno una rissa. Come questo sia potuto accadere, lo sanno solo i lampedusani e gli immigrati che hanno convissuto al loro fianco in quei mesi. Non mancavano proteste, provocazioni, e non manca certo a Lampedusa chi sostiene che gli immigrati non avevano nessun diritto di partire dal loro paese per “venire a invadere Lampedusa”. Ma come dice don Stefano e come ci ripeteranno in seguito molti pescatori, non mancava nemmeno chi dava soldi ai migranti, chi forniva loro cibo e chi improvvisava con loro tornei di calcio internazionali. Come mi son ripetuta moltissime volte nel corso di questa settimana, la verità assoluta non esiste, tutto quel che possiamo ricercare sono le innumerevoli verità parziali che le persone custodiscono per sé stesse.
Pino
È il penultimo giorno di permanenza a Lampedusa. Tutti vogliamo viverlo intensamente. La mattina, alzataccia alle 5.30 per andare alla spiaggia dei Conigli (ancora deserta) a creare il nostro regalo di addio ai lampedusani. Ci sdraiamo sulla spiaggia mentre il sole lambisce la sabbia bianca tramutandola in oro. Ci disponiamo in modo da formare un immenso GRAZIE con i nostri corpi e aspettiamo che Fulvio Bugani, il nostro fotografo, ci faccia qualche scatto dall’alto delle rocce. Finito di farci fotografare, ci buttiamo tutti fra le onde e credo di aver fatto il più bel bagno in mare di tutta la mia vita. La sabbia era così soffice, le onde così trasparenti e i pesci così poco diffidenti che sarei rimasta in acqua per ore e ore… ma bisognava prepararsi alla mobilitazione di quella sera! Abbiamo stampato molte copie della foto di ringraziamento in formato cartolina da distribuire ai lampedusani, abbiamo disseminato il paese di palloncini colorati con su scritto “guarda il C.I.E.lo” e abbiamo creato in piazza il “percorso della memoria” (idea dei ragazzi di A.G.). Con oggetti una volta appartenuti ai migranti raccolti sulla spiaggia, poesie di Erri de Luca, fotografie e pezzi di rete abbiamo ricostruito tutti i bivi di fronte ai quali un “viaggio della speranza” è destinato a trovarsi. Raggiungere le coste, o essere seppelliti dal mare. Essere rinchiusi in un C.I.E., o vivere tra la gente. Ritrovare la libertà, o essere “rispediti al mittente”.
A guardare il nostro “percorso della memoria” con sguardo disapprovante, c’era Pino. Parlò con molti di noi, io rimasi per più di un’ora ad ascoltarlo. All’inizio, pensavo che non avrei retto i suoi discorsi, mi stava già invadendo un vago malessere. Sapevo di non poter fare nulla per lui. È un vecchio, non potevo arrabbiarmi con lui, né sperare di riuscire in una sera a piantare in lui il seme del dubbio. Mi feci però forza e continuai a parlarci. Lentamente si rilassò, cominciò a parlare con meno durezza, negli occhi aveva una gran sofferenza mescolata a fierezza. Non riporto qui tutto quello che ci disse, ma solo che lo lasciammo abbracciandolo. I suoi non erano i discorsi di un razzista né di un uomo povero in amore, ma di un uomo cresciuto nel secolo scorso che si ritrova a dover fare i conti con l’individualismo del nuovo millennio. Con grande rispetto, aggiunsi la sua voce a quella di tutte le altre, e lasciai Lampedusa pensando che è davvero una terra complicata. Come tutto il resto del mondo.
Ciò che di me resta a Lampedusa
Una lettera, fatta arrivare ai ragazzi della base Loran, scritta dal nostro gruppo. Visto che non li abbiamo potuti incontrare, ci sembrava sacrosanto poter almeno dire loro che lo avremmo voluto fare.
Un anello di legno, del Niger, lasciato cadere fra le onde durante una gita in barca. Volevo che restasse qualcosa di mio, lì, come promessa di ritorno.
(post scriptum)
E poi tutto viene spazzato via…la notte successiva alla mia partenza, una barca con 300 migranti approda a Lampedusa, a Cala Pisana, con 25 morti uccisi dall’asfissia nella stiva. A che serve il mio amore, se le mie mani non hanno potuto farli uscire di lì prima che fosse troppo tardi? Nell’attesa di rimediare almeno un po’ ,concretamente, alla mia inutilità, che io serva almeno a convincere qualcuno che non sono questi fratelli venuti dal mare il vero problema del nostro paese.