mercoledì 21 settembre 2011

RACCONTO DI LAMPEDUSA " che io serva almeno a convincere qualcuno che non sono questi fratelli venuti dal mare il vero problema del nostro paese. Di MOIRA GRISOGONO


La settimana a Lampedusa è stata talmente intensa che non sono riuscita a scrivere quanto avrei voluto. Cerco allora di radunare qui i tanti, piccoli frammenti di Lampedusa che ho accumulato in questi giorni. Non ho alcuna pretesa di oggettività su quello che scrivo, mi sarebbe piaciuto poter rimanere più a lungo sull’isola per conoscerla meglio e mettere alla prova le idee che mi sono fatta, ma il tempo che avevo è corso via più velocemente di un fiume in piena e tutto ciò che rimane sono impressioni, dettagli, emozioni e voci di gente.
Prima impressione
Dall’aereo, Lampedusa sembra avere qualcosa di arabo nel suo modo di stare al sole, battuta da tutti i venti, con le sue case molto fitte e colorate dai tetti piatti. L’aeroporto si trova in una zona chiamata Punta Sottile (un vero e proprio corridoio di terra attraversato dalla pista di atterraggio) e il sole, già basso, illumina il suolo di una luce che lo fa arrossire. Tutto è polvere, roccia, cespuglio. Non ci sono molti alberi e quelli che ci sono assumono un atteggiamento nobile, per via della loro irrimediabile solitudine.  Ci accolgono all’aeroporto, salutiamo quelli che saranno i nostri compagni di viaggio e ci avviamo sulla strada che porta al campeggio.
Nel petto, un impercettibile battito d’ali. Mi piace stare qui.
Lampedusa terra da difendere
Il giorno dopo, abbiamo il piacere di conoscere Giusy Nicolini, rappresentante di Legambiente a Lampedusa. Ci racconta che un tempo l’isola era coltivata, ma che in seguito, probabilmente sotto il regno dei Borboni, ha avuto inizio un lento e inesorabile fenomeno di disboscamento che ha lasciato l’isola desertificata, dal suolo ormai indurito e inospitale. Non c’erano più nemmeno ginepri e corbezzoli (di corbezzolo ne rimane soltanto uno in tutta l’isola) e agli abitanti di Lampedusa rimase solo la pesca…finché non si comprese l’immenso potenziale turistico dell’isola… Legambiente si è battuta contro l’inflazione turistica, perché la tendenza a considerare il turismo come l’unica salvezza dell’isola potrebbe essere fatale per il suo futuro.  L’abuso edilizio, lo sfruttamento della natura fino all’ultima goccia di linfa, l’abbandono delle spiagge al settore privato sono sicuramente fattori che, a lungo andare, porterebbero l’economia di Lampedusa al suicidio. Nel 1981 fu istituita a Lampedusa la Riserva Naturalistica dell’isola dei Conigli, l’unica riserva in Italia a essere istituita sotto la richiesta popolare di 1500 firme. Questo non bastò, tuttavia, a salvare l’isola dalla voracità della speculazione. Fino al 1996, la spiaggia dei Conigli rimase in pessime condizioni (c’era addirittura la possibilità di ingresso motorizzato fino a riva).  Con molti sforzi, Legambiente riuscì finalmente a tenere sotto controllo la situazione della Riserva, “ripulendola” e permettendole di tornare a essere una delle più belle baie d’Italia. Ora sulla spiaggia ci sono regole chiare: la spiaggia è libera, e di notte appartiene alla tartaruga (che proprio in questa stagione viene a deporvi le uova). Una bella vittoria per Lampedusa, che sembra aver capito l’importanza di un ambiente sano per un’economia sostenibile nel lungo periodo.
Verso sera, il gruppo si reca in paese per assistere alla proiezione del film “Soltanto il Mare” di Dagmawi Yimer, regista etiope che più volte ha collaborato con Amnesty International. Il film racconta di come Dag, sbarcato a Lampedusa nel 2006, ha vissuto l’isola e i suoi abitanti, le vicissitudini di Lampedusa dell’inverno scorso. Un film davvero da consigliare a chi non conosce Lampedusa e tende a vederla come un piccolo lembo di terra infestato dai migranti e dal razzismo dei residenti.
All’uscita dalla sala parrocchiale, delle vecchie coppie ballavano il liscio sulla piccola piazzetta di fronte.
Abbracci impossibili
Lunedì mattina, un inaspettato acquazzone ci ha costretti a rimandare la visita all’isola dei Conigli. Non mi è dispiaciuto per niente, perché in cambio ci è stata data l’opportunità di partecipare a un piccolo presidio in solidarietà ai migranti organizzato davanti al C.I.E. di Imbriacola. Forse anche per colpa della pioggia, il presidio è stato davvero “piccolo”, ma l’emozione, al contrario, enorme. Un posto di blocco sorvegliato dalla guardia di finanza ci impediva di avvicinarci ai cancelli del centro. Il motivo? Forse, come ci ha spiegato poi nel pomeriggio un carabiniere della base per minori Loran (un distaccamento del C.P.S.A. di Lampedusa, situato anch’esso a Imbriacola), si temeva che alla nostra vista i migranti si agitassero troppo. Qui, secondo me, la sintesi di tutte le ingiustizie che gli immigrati clandestini subiscono nel nostro paese. Uomini, donne e bambini arrivati in Italia e automaticamente rinchiusi in centri di prima accoglienza dove, di fatto, vivono come detenuti senza aver commesso alcun reato.
 Molto difficile è entrare nel centro, e ancor più difficile uscirne.  La distanza fra noi era breve, e insopportabile.
Nel pomeriggio, la scena si ripete davanti alla base Loran. Ci viene chiesto di allontanarci e, questa volta, di presentare i nostri documenti. Il mare era calmo e il cielo ormai spalancato all’azzurro,  ma i nostri sguardi si impigliavano senza sosta nella rete del centro, dall’altra parte della quale tutti i ragazzi presenti al centro ci guardavano. Noi qui, loro lì, dietro la rete, dall’altra parte del mondo.
Ci raggiungono le rappresentanti di Terres des Hommes, che grazie ad un progetto hanno la possibilità di entrare tre volte a settimana nel centro.
 Alessandra, avvocato, ci da alcune informazioni riguardo le condizioni dei minori “detenuti”. Attualmente sono 169, tutti maschi fra i 14 e i 17 anni, e con loro ci sono altri due migranti, adulti. Vengono per la maggior parte dall’Etiopia, dall’Eritrea, dalla Somalia, dalla Nigeria, dal Mali e dalla Tunisia. Per arrivare fin qui, sono tutti passati dalla Libia. Sono tutti minori non accompagnati (se fossero accompagnati, verrebbero ospitati assieme alle famiglie nel C.P.S.A. di Imbriacola). Nessuno di loro è stato affidato ad un tutore, come per legge dovrebbe essere. Rinchiusi nel centro senza alcun titolo giuridico, rimangono nel centro per qualche tempo (ci sono stati casi di ragazzi trattenuti per 55 giorni), per poi essere trasferiti verso delle case d’accoglienza sparse in tutta Italia (o verso le cosiddette “strutture ponte”, che se ne occuperanno in attesa di un nuovo trasferimento). Le condizioni all’interno del centro sono molto precarie: non vi sono passatempi oltre a quelli che da soli i ragazzi si ingegnano a creare, le condizioni igieniche sono scarse e non vi sono, alla base Loran, cabine telefoniche a disposizione (ci sono due cellulari, ma non è facile riuscire a captare la rete). Nel centro entrano, oltre a Terres des Hommes, alcune altre organizzazioni autorizzate. Fra queste, la Croce Rossa, l’Unhcr e Save the Children (con la quale abbiamo avuto un incontro giovedì sera).
 La tristezza è molta, nell’ascoltare le parole di Alessandra, e i lunghi, silenziosi, clandestini saluti a distanza che ci siamo scambiati con i ragazzi del centro serrano la gola lungo la strada del ritorno.
Un’introduzione al quadro legislativo italiano in materia di immigrazione con Alessandra
 La parola “clandestino” significa, etimologicamente, “colui che si nasconde alla luce del sole”. Qui, la mia opinione si discosta da quella del resto del mio gruppo. Io non ci trovo nulla di brutto in questa parola, è semplicemente una parola disgraziatamente caduta nelle reti del linguaggio mediatico, che l’hanno trasformata in un insulto quando in sé per sé descrive solo una situazione di fatto. Nascondersi dalla luce del sole, dallo Stato e dalla legge è una necessità  per oltre un milione di persone in Italia. Perché entrare legalmente in Italia per qualcuno può essere difficilissimo, se non impossibile.
Ottenere visti d’ingresso è un’impresa. Se dichiari di voler un visto di turismo, i controlli saranno talmente stretti attorno alle tue capacità economiche, alla tua situazione lavorativa e familiare, che ti costerà molta fatica ottenerlo. Tanto vale dire la verità: serve un visto di lavoro. Il problema, qui, è che ottenere un visto di lavoro è cosa molto più ardua. Esistono i flussi di assunzione internazionale, la cui portata è decisa direttamente da Confindustria (regione per regione, si decide quanti posti di lavoro offrire e per quali categorie). Di fatto questi flussi servono a regolarizzare la situazione di molti lavoratori immigrati già presenti sul suolo italiano. Un controsenso, un’ipocrisia legislativa, che per di più pone sul cammino dello straniero in cerca di regolarizzazione infiniti ostacoli burocratici. Il “futuro” datore di lavoro presenta la domanda in Prefettura, che la trasmette alla Questura. Lì vengono controllati le fedine penali del datore e dell’aspirante lavoratore, nonché i redditi del primo (che deve risultare in grado di pagare lo stipendio e i contributi per il dipendente). Se la procedura funziona, si emana il nulla osta (con una validità di sei mesi) che va inviato nel paese d’origine del migrante. Quest’ultimo deve tornare, clandestino, nel proprio paese per poter ritirare il visto di lavoro dall’ambasciata. A questo punto, lo straniero è legittimo titolare di un permesso di soggiorno a fini di lavoro. Nel caso perdesse il lavoro, ha sei mesi per trovarsene un altro, o il permesso di soggiorno perde validità.
Un altro modo per regolarizzare un lavoratore clandestino è la cosiddetta “sanatoria”. In periodi di tempo fissati, il datore di lavoro può autodenunciarsi per aver favorito l’immigrazione clandestina offrendo lavoro in nero. Dopo aver pagato una multa di 500 euro, il dipendente potrà forse ottenere un permesso di soggiorno.
Ma la più grande vergogna, per l’Italia, sono le espulsioni. La legge Bossi-Fini del 2002 impone che tutte le espulsioni vengano attuate tramite accompagnamento coatto alla frontiera (una volta, questa procedura veniva usata solo per i soggetti resisi colpevoli di reati). Un’espulsione di questo tipo, visto che necessita spesso di un volo intercontinentale e di una scorta pagata, può costare anche 20.000 euro. naturalmente non ci sono i soldi per applicare la legge. Si da allora al migrante un foglio (che i clienti di Alessandra hanno efficacemente ribattezzato “foglio di via”) con l’ordine di lasciare il territorio nazionale entro 5 giorni. Le spese per il viaggio vengono così automaticamente accollate all’espulso. Nel caso in cui la situazione individuale del migrante non sia chiara (per esempio, non si conosce il paese di provenienza), lo sfortunato viene  rinchiuso in un C.I.E. (questa settimana, verrà molto probabilmente approvato un decreto legislativo che allunga il tempo di possibile detenzione da 6 a 18 mesi). La detenzione, in questo caso, è una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, in quanto non giustificata da un reato commesso.
Amnesty e Lampedusa
Come ci racconta Giusy D’Alconzo, ricercatrice di Amnesty in materia di immigrazione, l’immigrazione clandestina raggiunge le coste di Lampedusa all’inizio degli anni 2000. Prima di allora, la maggior parte degli stranieri entrati in Italia via mare proveniva dai Balcani e dal vicino oriente, e una delle rotte privilegiate era quella dello stretto di Otranto, in seguito chiusa. È molto importante però precisare che, nel totale dei migranti clandestini, solo una minima parte (dal 4% al 10%) arriva via mare, e la maggior parte di essi è rappresentata da profughi e rifugiati. I migranti cosiddetti “economici” tendono ad arrivare via terra, varcando le frontiere del nord Italia.
A Lampedusa, i primi migranti sono accolti con benevolenza. Non faccio nessuna fatica a crederlo, perché in questi pochi giorni mi è capitato di sfiorare delle persone incredibilmente disposte a incontrare l’altro, e forse, discretamente, a condividerne il dolore. La situazione cambia nel 2004-2005, quando la politica si rende conto che creare un po’ di sano allarmismo sugli “sbarchi” clandestini può far bene a tutti. Sia da destra che da sinistra, gli sbarchi cominciano a essere percepiti come qualcosa da rinfacciare ai propri avversari politici, e fermare gli sbarchi sembra essere ormai diventato una missione da portarsi all’occhiello, come fosse un fiore. All’inizio, i C.P.T. non erano aperti a nessuno, nemmeno Amnesty International poteva entrarvi. Nonostante questo, e forse anche a causa di questo, l’associazione comincia a fare ricerche sul campo, soprattutto grazie alle testimonianze di migranti che da Lampedusa sono passati.
Nel febbraio 2006 esce il rapporto di Amnesty “INVISIBILI”, dove si denuncia la presenza di molte centinaia di minori nei flussi migratori, che ricevono lo stesso trattamento degli adulti e che non compaiono nelle statistiche ufficiali. Dopo un’altra richiesta per entrare nel C.P.T. di Lampedusa (anch’essa respinta), Amnesty continua a tessere rapporti con le associazioni locali di assistenza e a raccogliere interviste di immigrati. Per caso, mentre i mass media cominciavano ad invadere l’isola, Amnesty scopre l’esistenza di Alternativa Giovani, una piccola associazione di giovani lampedusani che cerca di dare un’immagine diversa della loro terra rispetto a quella fornita dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione. Insieme, le due associazioni organizzano un convegno sull’isola (“Lampedusa terra di diritti umani”) e Amnesty fa partire una campagna su Lampedusa che, con 50.000 firme, convince il ministero dell’Interno a richiedere un incontro. Si ottengono alcuni risultati, come l’obbligo della determinazione dell’età dei migranti attraverso esami medici come la lastra del polso (ora, in seguito a delle ricerche, si è trovato delle falle in questo tipo di test, che pertanto non può più essere legalmente usato).
Dal 2006 al 2009, Lampedusa torna a essere un luogo di transito, i migranti non vengono più trattenuti a lungo sull’isola. I trasferimenti si fanno veloci e nasce il cosiddetto “modello Lampedusa” che serve da esempio ad altre zone d’Italia e d’Europa. Nel frattempo, Amnesty ottiene l’autorizzazione a visitare i centri dove sono ospitati i migranti in attesa di trasferimento e, insieme ad Alternativa Giovani, riesce ad ottenere un progetto educativo nelle scuole.
Nel 2008, il flusso migratorio che tocca Lampedusa è aumentato rispetto agli anni precedenti. Il ministro Maroni, con il decreto 12.5 del 2009, stabilisce che le persone non verranno più trasferite: tutte le valutazioni dei singoli casi verranno effettuate direttamente a Lampedusa. Nel febbraio 2009, Amnesty può constatare con i suoi occhi che questo ha provocato un enorme sovraffollamento sull’isola. Il sistema-Maroni (finalizzato ufficialmente a velocizzare i processi di espulsione) fallisce, e si cerca di rimediare con i respingimenti (facilitati dal vergognoso accordo di amicizia Italia-Libia, ratificato nel 2008 dal Parlamento con il 90% dei voti favorevoli).
Arriva poi la primavera araba, e com’è normale in ogni momento storico particolarmente cruciale, il flusso migratorio (specialmente dalla Tunisia) s’ingrossa ulteriormente, anche grazie alla diminuzione dei prezzi del traffico d’uomini (causata a sua volta dalla rischiosità della rotta libica). Così, quest’inverno, più di 6000 migranti vengono bloccati sull’isola per settimane (il Governo ha nuovamente bloccato i trasferimenti). Il C.I.E. di Lampedusa, che ha una capienza di circa 2000 persone, non basta ad ospitare tutti. I migranti si riversano nelle strade di Lampedusa, dormono all’aperto, mangiano quello che possono, cercano di far trascorrere il tempo. Nel frattempo, innumerevoli giornalisti e operatori si precipitano a Lampedusa per filmare in diretta “l’emergenza”. Dai racconti delle persone che abbiamo incontrato, in quel periodo l’isola era scossa, perplessa, si sentiva soffocare (il che è comprensibile, se si considera che sono appena 6.000, gli abitanti di Lampedusa). Tutti erano arrabbiati. Ma, almeno dalle testimonianze di Vincenzo, Salvatore, Pietro, don Stefano, i ragazzi di A.G. e molte altre persone con cui non ho potuto parlare direttamente, la rabbia era rivolta principalmente al Governo, che tardava (forse volontariamente) a prendere dei provvedimenti.
Vincenzo e Porta d’Europa
È fine pomeriggio, soffia uno scirocco che porta meduse alla spiaggia e caldo umido sulla pelle. Camminiamo senza meta per le strade di Lampedusa, con un appuntamento per le 7 a Porta d’Europa. Abbiamo voglia di parlare, conoscere gente, stare con i lampedusani, ma solo poche ore a disposizione. Nella zona del porto vediamo tre signori sui sessanta vicino ad un bel peschereccio (la “Flavia”, come si presenta la scritta sul fianco) dipinto di bianco e azzurro. Con la scusa di chiedere indicazioni (anche se Antonino, di Alternativa Giovani, ci ha spiegato perfettamente dove si trova porta d’Europa) ci avviciniamo al primo signore e attacchiamo discorso.
Senza alcuno sforzo da parte nostra  per spingere la conversazione oltre il semplice “mi scusi/grazie” , il signor Vincenzo si mette a raccontare la storia del monumento, spiegandoci che è stato costruito due anni fa sull’estrema punta sud di Lampedusa (quella che le imbarcazioni dei migranti cercano di raggiungere) per dare il benvenuto ai nuovi arrivati e per commemorare quelli che sono naufragati nel segreto del Mare prima di poter essere soccorsi. Vincenzo non ha niente contro i migranti, nemmeno contro quelli che lo scorso inverno hanno invaso l’isola creando un certo disagio alla popolazione. Come molti, qui, crede che la crisi sia stata creata volontariamente dal Governo italiano (che ha bloccato i trasferimenti, lasciando che il centro d’accoglienza di Lampedusa, e poi le sue strade, si gonfiassero di migranti esasperando la situazione) per ricevere fondi dall’Unione Europea.
Durante i mesi “caldi” dell’emergenza, i migranti stavano e dormivano dappertutto, anche sotto le barche. Vincenzo, al quale dei ragazzi tunisini hanno “sequestrato” la scialuppa per due settimane, non si lamenta e sembra provare comprensione più che astio, pietà più che paura. La sua rabbia è per il governo, che ha lasciato l’isola da sola, e per i mass media, che “hanno parlato troppo e troppo poco di quello che avveniva a Lampedusa). Troppo del caos, del disordine, del sovraffollamento. Troppo poco dei veri problemi dell’isola e di ciò che molti lampedusani hanno fatto per aiutare i migranti. “Certo”, prosegue Vincenzo, “la situazione poteva scoppiare in ogni momento, bastava tanto così”… ma questo non è avvenuto. Dopo una lunga conversazione e qualche scambio di battute, ci accomiatiamo dal pescatore con un sorriso e cerchiamo di raggiungere porta d’Europa.
Lo ritroviamo poco dopo, con la macchina (voleva forse sapere se eravamo riusciti a trovare il luogo dell’appuntamento?), e ci scorta fino al monumento.
Al tramonto, con tutti i nostri compagni seduti sulla roccia e i ragazzi di Alternativa Giovani che ci spiegano come la loro piccola e potente associazione (nata in seno al liceo scientifico dell’isola) cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica locale sui problemi del migrante, Porta d’Europa si riempie di sole. L’orizzonte, guardato da sud, è dolorosamente bello e sembra annunciare nuovi arrivi. Una frase, pronunciata da qualcuno dei ragazzi di A.G., rende comunicabile ciò che ho pensato in quel momento: “il prossimo non è solo colui che abbiamo immediatamente accanto, ma anche colui che sta per arrivare.”
Don Stefano
È sera, ci rechiamo tutti in parrocchia per ascoltare la testimonianza di don Stefano riguardo gli avvenimenti dello scorso inverno. Un uomo corpulento, di grandi mani e occhi scuri, che si veste volentieri di blu (o almeno credo, perché le tre volte che l’ho incrociato in strada era vestito di blu) e che parla un italiano attraversato da vivaci sfumature siciliane. Ci racconta di come le persone hanno vissuto inverno e primavera, qui a Lampedusa. Non è stato facile per nessuno. Ci sono stati momenti di fortissima tensione, come quando, il 20 maggio, un gran numero di lampedusani ha protestato contro l’arrivo di tende per i migranti. Fra me, mi ripeto che non posso sperare che tutti siano come Antonino e gli altri di Alternativa Giovani, e che in un’isola così piccola da non avere un ospedale è normale che la gente si senta “invasa” dalla permanenza di così tanti migranti. Don Stefano ci tiene però a ricordare che non c’è mai stata violenza. Nemmeno un atto vandalico, nemmeno una rissa. Come questo sia potuto accadere, lo sanno solo i lampedusani e gli immigrati che hanno convissuto al loro fianco in quei mesi. Non mancavano proteste, provocazioni, e non manca certo a Lampedusa chi sostiene che gli immigrati non avevano nessun diritto di partire dal loro paese per “venire a invadere Lampedusa”. Ma come dice don Stefano e come ci ripeteranno in seguito molti pescatori, non mancava nemmeno chi dava soldi ai migranti, chi forniva loro cibo e chi improvvisava con loro tornei di calcio internazionali. Come mi son ripetuta moltissime volte nel corso di questa settimana, la verità assoluta non esiste, tutto quel che possiamo ricercare sono le innumerevoli verità parziali che le persone custodiscono per sé stesse.
Pino
È il penultimo giorno di permanenza a Lampedusa. Tutti vogliamo viverlo intensamente. La mattina, alzataccia alle 5.30 per andare alla spiaggia dei Conigli (ancora deserta) a creare il nostro regalo di addio ai lampedusani. Ci sdraiamo sulla spiaggia mentre il sole lambisce la sabbia bianca tramutandola in oro.  Ci disponiamo in modo da formare un immenso GRAZIE con i nostri corpi e aspettiamo che Fulvio Bugani, il nostro fotografo, ci faccia qualche scatto dall’alto delle rocce. Finito di farci fotografare, ci buttiamo tutti fra le onde e credo di aver fatto il più bel bagno in mare di tutta la mia vita. La sabbia era così soffice, le onde così trasparenti e i pesci così poco diffidenti che sarei rimasta in acqua per ore e ore… ma bisognava prepararsi alla mobilitazione di quella sera! Abbiamo stampato molte copie della foto di ringraziamento in formato cartolina da distribuire ai lampedusani, abbiamo disseminato il paese di palloncini colorati con su scritto “guarda il C.I.E.lo”  e abbiamo creato in piazza il “percorso della memoria” (idea dei ragazzi di A.G.). Con oggetti una volta appartenuti ai migranti raccolti sulla spiaggia, poesie di Erri de Luca, fotografie e pezzi di rete abbiamo ricostruito tutti i bivi di fronte ai quali un  “viaggio della speranza” è destinato a trovarsi. Raggiungere le coste, o essere seppelliti dal mare. Essere rinchiusi in un C.I.E., o vivere tra la gente. Ritrovare la libertà, o essere “rispediti al mittente”.
A guardare il nostro “percorso della memoria” con sguardo disapprovante, c’era Pino. Parlò con molti di noi, io rimasi per più di un’ora ad ascoltarlo. All’inizio, pensavo che non avrei retto i suoi discorsi, mi stava già invadendo un vago malessere. Sapevo di non poter fare nulla per lui. È un vecchio, non potevo arrabbiarmi con lui, né sperare di riuscire in una sera a piantare in lui il seme del dubbio. Mi feci però forza e continuai a parlarci. Lentamente si rilassò, cominciò a parlare con meno durezza, negli occhi aveva una gran sofferenza mescolata a fierezza. Non riporto qui tutto quello che ci disse, ma solo che lo lasciammo abbracciandolo. I suoi non erano i discorsi di un razzista né di un uomo povero in amore, ma di un uomo cresciuto nel secolo scorso che si ritrova a dover fare i conti con l’individualismo del nuovo millennio. Con grande rispetto, aggiunsi la sua voce a quella di tutte le altre, e lasciai Lampedusa pensando che è davvero una terra complicata. Come tutto il resto del mondo.

Ciò che di me resta a Lampedusa
Una lettera, fatta arrivare ai ragazzi della base Loran, scritta dal nostro gruppo. Visto che non li abbiamo potuti incontrare, ci sembrava sacrosanto poter almeno dire loro che lo avremmo voluto fare.
Un anello di legno, del Niger, lasciato cadere fra le onde durante una gita in barca. Volevo che restasse qualcosa di mio, lì, come promessa di ritorno.

 (post scriptum)
E poi tutto viene spazzato via…la notte successiva alla mia partenza, una barca con 300 migranti approda a Lampedusa, a Cala Pisana, con 25 morti uccisi dall’asfissia nella stiva. A che serve il mio amore, se le mie mani non hanno potuto farli uscire di lì prima che fosse troppo tardi?  Nell’attesa di rimediare almeno un po’ ,concretamente,  alla mia inutilità, che io serva almeno a convincere qualcuno che non sono questi fratelli venuti dal mare il vero problema del nostro paese.

RACCONTO DI LAMPEDUSA " che io serva almeno a convincere qualcuno che non sono questi fratelli venuti dal mare il vero problema del nostro paese. Di Moira grisogono


martedì 6 settembre 2011

Il Falco e il Bambino.

Il Falco e il Bambino.

Il Falco è arrivato sull'Isola dalla Tunisia, appoggiato sul braccio del suo compagno di viaggio (nonché proprietario ed addestratore), un pò provato ma in buona salute.
Il bambino, un fagotto di tre mesi, è sbarcato a Lampedusa il 6 agosto, insieme ai genitori, al fratellino di 16 mesi ed alla sorella di sette anni.
Omar, il bambino, scappava con la famiglia dalla guerra in Libia, la terra dove i suoi genitori avevano deciso di rifugiarsi dopo essere fuggiti dal Darfur e dal Ciad. Ci sono vite, ci sono famiglie, che non fanno che scappare. Soffrire e scappare.
Omar, il bambino, ha navigato 50 ore prima di approdare sull'Isola e nel viaggio ha visto 300 tra uomini e donne pregare ed imprecare, ha visto corpi incastrati e calpestati e ha visto il sangue. Ha visto accoltellare il padre e ha visto i suoi aggressori tentare di ucciderlo con pugni e lame fino a quando un elicottero non ha illuminato la barca e uomini in divisa li hanno condotti in salvo.

Il Falco è di specie protetta, Falco pellegrino. Un rapace fiero e prezioso e perfettamente addestrato dal giovane tunisino che lo porta con sè.
Il Falco, appena arrivato al centro di Contrada Imbriacola (dove stanno rinchiusi e ammassati un migliaio di profughi) è stato accudito e curato: a lui è stata dedicata una stanza personale, per lui è stato procurato cibo speciale, perchè non avesse a patire neppre un attimo nella sua nuova dimora.

Omar, il bambino, dorme da 30 giorni su un materasso di gommapiuma buttato per terra, in una stanza condivisa con altri compagni di sventura. Omar è un neonato sudanese profugo dalla Libia, dovrebbe, come neonato e come profugo, appartenere anche lui ad almeno due categorie protette. Ma non è un rapace.

Per il Falco si è cercata e trovata in pochissime ore una collocazione adeguata, perchè è evidente che contrada Imbriacola non è luogo adatto neppure per farci dormire un rapace. E così, in men che non si dica, viene immediatamente disposto il suo trasferimento in una "residenza protetta" perchè neanche una piuma risenta della detenzione nel Cpsa.
Il Falco viene preso in consegna da mani esperte e strappato dal braccio del suo giovane amico (e legittimo proprietario) tunisino. Il ragazzo resta così solo e disperato, rinchiuso a Contrada Imbriacola. Lui è un profugo tunisino, non appartiene evidentemente a nessuna specie protetta e dunque non merita nè una degna accoglienza nè tantomento la libertà. Non solo, essendo stato privato della compagnia del rapace non gode nepure di riflesso dei benefici e dei privilegi che venivano concessi al Falco: e così si scorda la stanza e viene ributtato in mezzo alle centinaia di altri profughi nel "gabbio" per adulti dentro il gabbione di Contrada Imbriacola.
E lì si aggira, orfano del Falco, chiedendone a tutti notizie. La polizia, per tranquillizzarlo, gli ha raccontato che se riuscirà a prendere un permesso di soggiorno, il Falco (la cui posizione sul suolo Italico è già stata perfettamente regolarizzata) gli verrà restituto. MI chiede se è vero e come mai al numero di telefono della nuova dimora del rapace non risponde nessuno. Provo a chiamare anch'io: nessuna risposta. Mi arrovvello pensando ad una fantasiosa ipotesi di ricongiungimento Falco (regolarmente soggiornante) con tunisino (irregolare, trattenuto in attesa di espulsione). Ma temo di non trovare molti precedenti di giurisprudenza in materia.

Omar, il bambino, oggi festeggia il suo primo mese di detenzione in Contrada Imbriacola, tra poliziotti, sporcizia e insetti. Ho scritto e segnalato l'llegittima detenzione di questo neonato e della sua famiglia a tutte le autorità ma non ho ottenuto nessuna risposta. Neppure quando il piccolo, prelevato in piena notte da un'operatrice della Lampedusa Accoglienza che aveva deciso (senza chiedere il consenso della madre) di fare un bagnetto al neonato, è rimasto gravemente ustionato dall'acqua bollente sulla gambina destra, qualcuno ha pensato che il Centro, la gabbia, fosse un luogo non dattato non solo ad un rapace ma neanche ad un neonato.
Omar, il bambino, resta lì, nella gabbia.
La madre mi fissa a lungo, mi chiede quando finirà la loro prigionia: è stanca ed è arrabbiata. Vuole prendersi cura dei suoi figli fuori da lì. E ha paura. Paura che i figli si ammalino o vengano feriti in una dell molte rivolte che settimanalmente scoppiano nel Centro. Paura dei lanci di sassi, dei manganelli e delle lamette con cui spesso i profughi, anche minorenni, si lacerano il corpo per protesta, nella vana speranza di suscitare un pò di compassione. E paura degli scafisti che avevano cercato di uccidere suo marito e che fino a pochi giorni fa erano rinchiusi nella stessa gabbia. Omar, il neonato, per sua fortuna non è in grado di riconoscerli, ma i suoi fratellini quando hanno visto di nuovo gli uomini cattivi che avevano fatto male al loro papà sono scappati via in singhiozzi.

Consegno a Kadija, la madre di Omar, tutte le lettere che ho scritto per loro e le spiego che un procuratore, un uomo per bene, si sta occupando di loro, che tra le altre cose sono anche vittime e testimoni di reati gravissimi e dunque anche per questo andrebbero protetti. La rassicuro che presto, se Dio vuole, Insciallah, verranno trasferiti. Le piace che le parlo schietta, che non le mento promettendole certezze che non posseggo. E mi ripete, Insciallah, se Dio vuole.

E così tocca a Dio anche farsi carico delle illegalità e della disorganizzazione di Contrada Imbriacola e tutto quello che ci gira intorno.

Stanotte il Falco dormirà sonni tranquilli, dopo aver mangiato cibo selezionato, ed essere stato visitato e coccolato da mani esperte e affettuose, soffrendo forse solo un poco per la nostalgia del ragazzo che l'ha allevato.

Stanotte Omar,il bambino, dovrà combattere contro il prurito di una piaga da ustione, contro le punture di insetti, il lancio di sassi e lame e le urla degli altri prigionieri.
Prossima vita, Omar, se nasce profugo, gli conviene nascere rapace.
6/9/2011
(Alessandra Ballerini)

dal sito  http://www.alessandraballerini.com/

DOCUMENTI

2 AGOSTO
 Comunicato Stampa redatto e condiviso dal coordinamento regionale 
SPRAR calabrese (Badolato, Riace, Acquaformosa, Cosenza, Melicuccà,
Caulonia, Crotone, Isola Copa Rizzuto, Lamezia). 
Il comunicato denuncia la gestione, da parte della 
Protezione Civile calabrese, dell'emergenza "immigrazione".
 
 

Da mesi assistiamo impotenti ed indignati alla creazione dell’ennesimo contesto di emergenza creato ad arte dal governo nazionale. In seguito alle rivolte della primavera araba, Lampedusa si trasforma in una prigione a cielo aperto e lo stato d’emergenza viene sancito da un Decreto con cui si affidano tutte le competenze alla Protezione Civile, suggellando il passaggio dell’accoglienza da materia sociale a “catastrofe emergenziale”.

Quella Protezione civile, nata per proteggere gli italiani in situazioni di emergenza è diventata negli ultimi anni un calderone di interessi finanziari che costa agli italiani due miliardi di euro all'anno.

Un "sistema gelatinoso", come è stato definito dai magistrati, fatto di imprenditori disonesti e appalti truccati che non solo non riesce a far fronte alle catastrofi, ma lucra su di esse arrivando perfino a festeggiare la notizia del terremoto abruzzese!

Nel caso della cosiddetta “emergenza sbarchi”, quando si cerca di comprendere come la Protezione Civile stia operando, ci si accorge immediatamente che in realtà l’emergenza non è tale. Nel caso della Regione Calabria il Piano prevede l’assegnazione di 1.643 posti, di cui attivati ad oggi, da quel che risulta, meno di 500. Un numero irrisorio e facilmente gestibile, (circa 4 persone per ciascuno dei rispettivi 409 Comuni calabresi), se non fosse per i criteri scellerati che si sono invece adottati dalla Protezione Civile.
La maggior parte di questi profughi, infatti, sono stati concentrati sulla costa tirrenica presso strutture alberghiere, come il caso di Amantea, dove risiedono attualmente circa 150 profughi o come nel caso di Falerna, con un centinaio di presenze e dove si è già verificata una rissa per futili motivi.

Considerato che la Calabria si è dotata di una Legge Regionale ad hoc sull’accoglienza, si potrebbe tranquillamente far fronte alla situazione attuale coinvolgendo quanti più comuni possibile, proprio per evitare il rischio di tensioni sociali e per dare senso e seguito al dettato della Legge Regionale, che mira a coniugare il ripopolamento dei piccoli comuni abbandonati proprio attraverso l’accoglienza dei profughi.
L’intera gestione del Piano risulta, invece, tanto complicata quanto priva di meccanismi di trasparenza: non c’è una programmazione chiara, è impossibile sapere quali siano i criteri adottati per la scelta delle strutture e come vengono selezionati i soggetti preposti all’assistenza dei migranti.
L’impressione che se ne ricava, dunque, è quella di un caos organizzato in cui manca il coordinamento dei soggetti coinvolti. Sindaci, associazioni, forze dell’ordine non vengono coordinate.
Anzi, spesso non sono al corrente di quanto accade. Molti sindaci sono stati sistematicamente esclusi dall’intera operazione e stesso destino è toccato allo SPRAR, una rete nazionale che da anni si occupa di accoglienza e tutela di richiedenti asilo, una rete diffusa su tutto il territorio, nei piccoli comuni come nelle grandi città, per un totale di 153 progetti territoriali.

Un modello virtuoso nato durante la crisi del Kosovo e fin da subito finalizzato a gestire l’accoglienza non in maniera emergenziale ma come occasione per progettare e pianificare un sistema pubblico di accoglienza.

Decentramento, ospitalità in piccoli numeri, coinvolgimento degli enti locali e dell’associazionismo, un approccio considerato un modello esemplare a livello europeo. Con il vantaggio di esperienze con forti ricadute sul piano sociale, come nel caso di Riace, riconosciuto internazionalmente come modello d’interazione ed inclusione sociale.

Ebbene, nel contesto attuale lo SPRAR, con un’esperienza decennale e con grandi professionalità radicate anche a livello locale, che dovrebbe essere il perno nella gestione dell’accoglienza, è stato completamente ignorato e scavalcato, come ha denunciato la Direttrice del Servizio Centrale, Daniela Di Capua.


. Le uniche iniziative in tal senso, una volta ancora, provengono dal basso e sono espressione di quella rete sociale spontanea che da sempre caratterizza questa Regione come terra di accoglienza.

Ogni giorno le cronache ci raccontano di continui sbarchi a Lampedusa e di proteste all’interno di strutture come quella di Mineo o di Manduria; i CARA sono già al collasso e in questi giorni sono scoppiate rivolte sia a Bari che a Crotone.

Quali sono dunque, le prospettive di un’accoglienza progettata in un’ottica emergenziale che ha guidato finora tutte le disposizioni del governo senza nessuna pianificazione di medio termine?
Che ne sarà di queste persone una volta esauriti i fondi?

Il vero allarme e la vera emergenza sono i risultati che questo scellerato Piano di Accoglienza sta già producendo: concentrazione di grandi numeri di profughi in contesti territoriali di piccole dimensioni e zero progettualità sul piano dell’inclusione, rischi di tensione sociale, proteste all’interno dei centri.
Come realtà impegnate nel campo dell’accoglienza in Calabria chiediamo invece:
  • che la competenza del Piano di Accoglienza passi dalla Protezione Civile alle Politiche Sociali delle Regioni;
  • che tutti gli interventi previsti per i richiedenti asilo siano coordinati dal Servizio Centrale, anziché dalla Protezione Civile;
  • che sia preso come modello di accoglienza, da implementare, il Sistema di Protezione dei Rifugiati e Richiedenti Asilo;
  • che sia data concretezza ed operatività ai dettami della Legge Regionale sull’Accoglienza.


Coordinamento Regionale Sprar Calabria

giovedì 11 agosto 2011

IN MARE CON 'VINCENZO PADRE'

Il peschereccio di Antonino Maggio, detto Nino, è ormeggiato al porto vecchio di Lampedusa, lì, proprio di fronte alla collinetta della vergogna, protagonista centrale degli eventi del febbraio e del marzo scorso. 
Il suo nome è 'Vincenzo Padre'. Nino ha voluto dedicarlo a suo papà, la persona che più di ogni altra gli trasmise la passione per il suo grande amore. Il mare. 
Sa ogni cosa della sua barca. Ha seguito passo per passo la sua costruzione, dedicandosene completamente. Ne è talmente orgoglioso che non riesce a non esprimere il suo entusiasmo. Lo si percepisce innanzitutto dai suoi occhi, vispi e sempre con lo sguardo diretto al timone. Lo si percepisce poi dalle sue parole. E' un chiacchierone Nino. E' orgoglioso dei suoi successi raggiunti con estrema fatica e determinazione ed è orgoglioso della conoscenza acquisita in anni di esperienza in mare. Non ha segreti per lui e di certo non gli fa paura. 
La nostra esperienza prende il via mercoledì alle 17.30. E' a quell'ora che mettiamo piede sul peschereccio. 
La cosa che più probabilmente colpisce è il colore: il rosso, il verde, il bianco e il blu contrastano a tal punto l'uno dall'altro che non è possibile non rimanere folgorati dalla maniera in cui sono accostati. E' un tripudio. 
Poi ci sono le reti che vengono accudite quasi fossero le loro figlie. Sempre lì a proteggerle ed a curarne  le ferite. 
Raggiungiamo l'equipaggio ed iniziamo ad approfondire la conoscenza. La barca è un via e vai continuo di persone e di storie, ma sono soltanto tre le persone, che oltre al capitano Nino, lavorano sul peschereccio: Pino, il cuoco, che con la sua battuta sempre pronta non perde l'occasione di far notare la sua solarità, che attribuisce alla sua natura isolana; c'è Sanah, un ragazzo senegalese, in Italia da diversi anni; gran lavoratore e gran pescatore, ha portato all'interno del peschereccio la sua expertise, acquisita durante gli anni di duro lavoro nel continente africano. Infine c'è Bartolomeo, il più riservato del gruppo, ma che ha contribuito in ogni modo a farci sentire a casa con la sua grande ospitalità.


Alle 19 la 'Vincenzo Padre' salpa. Meta: dieci miglia a sud-est, direzione Tunisia. E' qui, quando ci spostiamo nella cabina del comandante, che Nino inizia a raccontarci la sua storia. E' dall'età di sette anni che ogni giorno, dopo scuola,  raggiungeva il padre al porto e salpava con lui; è stato questo periodo che gli ha consentito di venire a conoscenza dei più piccoli trucchi della pesca, che oggi fanno di lui il gran pescatore che è. Quando suo padre venne a mancare, Nino dovette prendere il suo posto e a soli vent'anni divenne capitano di un peschereccio con un equipaggio di ben sedici persone, tutte più anziane di lui. 
Quello che emerge è che è come se Nino avesse fatto del lavoro la sua missione di vita. Una sorta di patto con suo padre. La grande responsabilità che dovette affrontare lo ha reso, seppur ancora molto giovane, un uomo di onore. Così continuò a garantire loro un posto di lavoro e a portare avanti ciò che suo padre gli consegnò in vita.
Ora, dopo praticamente quarant'anni di mare, Nino domina il suo peschereccio in maniera perfetta, grazie anche al contributo delle tecnologie sulle quali ha investito.
Noi ci sentiamo sicuri.
Inoltrarci nel dialogo con Nino non è difficile. Dopo averci accuratamente spiegato, con un certo orgoglio, i dettagli del tipo di pesca di cui si occupa, le modalità specifiche con cui avviene, le zone di pesca che deve rispettare a tutela della flora e della fauna marina e via dicendo, senza difficoltà, arriviamo ad affrontare le tematiche a cui noi, ragazzi di Amnesty International, siamo particolarmente interessati. Nino inizia a spiegarci come ha vissuto lui, marinaio e uomo di mare, gli sbarchi e gli incontri in acqua. Come la popolazione lampedusana ha reagito a quella che Nino ha definito una vera e propria invasione. La prima cosa che pensò quando si vide davanti ondate e ondate di migranti camminare per il paese fu 'ci hanno preso l'isola'.
Le televisioni e i giornali parlano di circa sei mila immigrati approdati a Lampedusa. Lui non ci crede. Erano almeno il doppio secondo Nino; dodici mila persone tra nord-africani  e sub sahariani, a giudicare dagli spazi occupati. Dai racconti del capitano emerge l'immagine di un'isola totalmente occupata, senza uno spazio libero per respirare. 
Uno ammassato sull'altro. Neanche fossero delle sardine.
Questa situazione ha portato ad un degrado estremo dell'isola, sfociato nelle nota immagine della collina della vergogna: oggi a distanza di quattro mesi questa zona mantiene i segni tangibili della condizione totalmente lesiva della dignità umana, imposta in maniera arbitraria a queste persone. 
Dormivano ovunque. 
Mangiavano ovunque. 
Si costruivano ripari ovunque e con qualsiasi cosa che capitava loro in mano.
Le storie di solidarietà della popolazione lampedusana nei confronti dei migranti sono molteplici ed emozionanti. 
Quando si chiede di assegnare il premio Nobel per la Pace a Lampedusa si intende premiare un'isola e dunque la sua popolazione, per l'estrema umanità, pazienza e dignità con cui è riuscita a gestire una situazione che facilmente sarebbe potuta sfociare in una e vera e propria guerriglia.
Invece i lampedusani si sono presi cura di loro. Li hanno vestiti, nutriti e soprattutto hanno comprato loro acqua, cibo, calze e vestiti senza limitarsi a osservare la situazione da dietro una finestra, sono intervenuti attivamente per restituire una dignità a queste persone. Hanno offerto loro un tetto sotto cui dormire e lo stesso Nino ha ospitato un gruppo di tunisini nel suo garage e ha comprato cibo ad un ragazzo che gli aggiustò l'automobile e che non volle in cambio nessun soldo. Ha permesso di caricare i cellulari  per consentire  loro di avvisare la famiglia del loro arrivo e del loro stato di salute. 
Questa è l'immagine che forse ha segnato maggiormente la memoria della gente ed è diventata simbolo della profonda cooperazione e unione di forze che ha connotato questa crisi: fili e fili di  caricatori di cellulari nelle prese di corrente delle famiglie lampedusane alle quali va attribuito il grande merito di essere riuscite a controllare la rabbia nei confronti della situazione ed ad incanalarla in atti che, senza alcuna retorica, possono essere descritti con un solo termine: magnanimità.
Come in ogni situazione, anche qui non mancano anche risvolti che mettono in rilievo l'altra parte della medaglia. Quella della tensione e della paura
Tensione e timore provato dalla figlia ventenne di Nino nel girare da sola per il paese e il suo conseguente chiudersi a chiave in casa e rimanerci per un discreto tempo. 
Tensione che nasce da gesti di stizza, da calci nervosi contro le automobili, da risposte tracotanti e da situazioni dettate da stanchezza e sfinimento.
La convinzione condivisa da quasi tutti a Lampedusa è, comunque, la consapevolezza che quella  di febbraio e marzo è stata una crisi creata ad hoc dal governo italiano, che si collega a quella campagna di criminalizzazione del migrante di qualche anno prima. Con intenzioni demagogiche che puntano su un linguaggio che enfatizza termini come invasione e terrorismo che generano paura e insicurezza. Ci troviamo di fronte, infatti, a un cortocircuito informativo che sicuramente non ha giovato all’isola; tutt’altro! Ha portato ad una diminuzione esponenziale del turismo (circa 80 %), risorsa fondamentale per la sussistenza dell’isola che è degenerata in un’insofferenza della popolazione nei confronti dei giornalisti che hanno mostrato un’immagine completamente distorta della situazione sull’isola.
La solidarietà dei lampedusani non si limita alla terra ferma, ma ha come spazio privilegiato il mare. Nino si è soffermato molto su i suoi incontri con navi di migranti in acqua. E la sua posizione, da subito, è stata molto chiara. In situazioni di pericolo, al di là delle procedure burocratiche,logistiche e legali che bisognerebbe seguire, la cosa che conta è una e una soltanto: la tutela della vita umana. E come lui ha voluto sottolineare è disposto ad affrontare il tribunale piuttosto che lasciare una vita in mare.


Spesso è capitato a Nino di incontrare navi in estrema difficoltà: sempre ha deciso di fermarsi a soccorrerle, sempre ha offerto acqua, cibo ed ogni tipo di necessaria assistenza, e sempre ha chiamato motovedetta e capitaneria di porto. Ha anche manifestato con una certa stizza i profondi ritardi delle unità di soccorso che molto spesso interrompono addirittura le ricerche per, a detta loro, falso allarme, a detta di Nino, grande incompetenza.
Inoltre una fattore su cui Nino s’è soffermato particolarmente è il fatto che nella maggior parte dei casi i soccorsi si limitano all’azione di accogliere gli immigrati sull’imbarcazione delle forze dell’ordine, che poi, però abbandonano la nave alle vicissitudini nel mare creando anche un certo pericolo per i pescatori che si trovano a scontrarsi con questi relitti che non sempre vengono segnalati dai radar.
Da subito Nino ha sottolineato che lo stato delle imbarcazioni con cui queste persone si accingono, molto spesso, a intraprendere il viaggio della vita, non è per nulla adeguato. 
Sono talmente arrugginite, costruite in modo tale da non riuscire a reggere un mare forza quindici. Navi che si ribaltano con facilità disarmante. Vecchie, vendute a contrabbandieri da pescatori a pochi soldi per un viaggio, invece, molto caro per chi vi partecipa.
 Tutti i risparmi impiegati ed investiti in un sogno. Il sogno di una vita vissuta nella dignità, che prevede diritto ad una abitazione, diritto ad un lavoro regolare, diritto anche e soprattutto alla felicità.
Nino è integerrimo. Il suo rapporto con il mare è una questione d’onore. Sul suo peschereccio vige una legge ben precisa: la difesa della vita umana viene prima di qualsiasi altra legge positiva.
E da qui che forse emerge maggiormente il rapporto di Nino con il mare. E' uno stile di vita oltre che la sua più grande passione. E' la via con  cui il capitano si approccia a tutte le dinamiche che possono verificarsi e caratterizzare situazioni fuori e dentro il mare. 
Ha sempre sfidato la legge quando s'è trattato di soccorrere persone in estrema difficoltà, come avvenne nell'agosto del 1998, quando uno yacht prese fuoco e lui, Nino, andando nella direzione opposta a quella stabilita dalla capitaneria di porto, mise la sua expertise al servizio della vita di tre persone. Le salvò e se ne prese cura. 


Nino è un grand'uomo.
Questa è la prima cosa che io e Fulvio abbiamo pensato scendendo dal peschereccio, dopo quindici ore di navigazione, alle nove del mattino di giovedì.
E' stata un'esperienza a dir poco emozionante: ascoltare storie di vita, storie di morte; assistere ai movimenti di questi pescatori che durante tutta la notte, senza dire alcuna parola, comunicavano tra di loro, quasi danzando tra reti e corde, tra calamari e sarde. 
Alba e tramonto. Delfini. Via lattea. Tanta condivisione e soprattutto la consapevolezza di essere in un'isola, che, al di là delle eccezioni, porta il valore della dignità umana, della vita e della solidarietà davanti a tutto.
A Nino il mare non fa paura.
E la nostra speranza è che un giorno, non troppo lontano, possa smettere di essere un incubo anche per coloro che ne devono subire la sua forza devastante.



Paola Plona

lunedì 8 agosto 2011

Nascere e morire a Lampedusa

Incontro Battista venerdì sera all’interno del Percorso della memoriaallestito nella piazza della chiesa dai noi ragazzi e ragazze del campeggio per i diritti umani di Amnesty International. Con questa rappresentazione, fatta di oggetti, parole, fotografie, abbiamo cercato di ripercorrere il viaggio dei migranti, dalla partenza sino al loro arrivo, momento in cui si profilano le due facce dell’accoglienza: il soccorso congiunto delle varie forze dell’ordine e delle associazioni umanitarie da un lato, e la detenzione presso i C.I.E. dall’altro, che li imprigiona in quanto accusati di reato di clandestinità. Per alcuni si prospetta un altro bivio durante il percorso: il non-arrivo, destinato a coloro che purtroppo non ce la fanno.

                Battista lavora nel corpo dei Vigili del Fuoco e guardando gli scalini vuoti della chiesa mi dice che nel periodo tra febbraio e marzo i migranti si accampavano un po’ ovunque e su quegli scalini si sdraiavano per dormire, ricoprendoli completamente, tanto che i fedeli dovevano utilizzare entrate alternative per recarsi a messa la domenica mattina. La piazza è spaziosa e semi-vuota adesso, difficile immaginare una tale calca di persone ammassate ovunque.

Il vigile del fuoco mi racconta di aver partecipato a molti interventi di soccorso, il suo tono si fa serio e accorato. Ha visto tante gente in condizioni disperate arrivare per mare cercando salvezza. Molto spesso lui e i suoi colleghi hanno recuperato donne con piccoli neonati, che piangevano senza sosta, perché non avevano avuto acqua né cibo per almeno tre giorni, in mezzo a quel mare grande fatto d’acqua e pesci. Me lo dice con tanta dolcezza perché, dice, quando quelle creature le hai davanti agli occhi, ti si stampano dentro e non te le scordi più. Racconta che ad alcune donne capita di partorire durante il viaggio, in mezzo a duecento-trecento persone, tante quante i trafficanti riescono a stiparne in quei vecchi pescherecci dismessi. Alcune donne in stato di gravidanza giungono con il travaglio già in corso e vengono accolte presso il poliambulatorio di Lampedusa, che non ha un reparto attrezzato di ostetricia, ma dove i vari medici presenti insieme a quelli della ONLUS Medici Senza Frontiere, assistono molte partorienti come meglio possono ed hanno aiutato a nascere molti piccoli migranti.

Strana isola Lampedusa, dove le migranti partoriscono, quasi per caso, perché la vita non può aspettare, preferendo rischiare tutto, la propria salute e quella di un figlio non ancora nato, pur di fuggire da terre in guerra, inospitali, dove la legge è la tortura, e il futuro promette solo fame e ingiustizia; strano posto, i cui abitanti preferiscono programmare il cesareo presso gli ospedali di Palermo, Agrigento, Catania, perché impossibile da praticare negli ambulatori di Lampedusa dove non esiste una sala operatoria, per non incorrere in alcun rischio, preferendo ricoverarsi in strutture attrezzate per ogni imprevisto, affrontando costi altissimi, da cinque fino a diecimila euro, per far nascere un figlio.

Battista mi parla  tristemente anche di quelli che non ce l’hanno fatta. Sono tanti, migliaia, non lo sapremo mai, dispersi in questo grande mare fatto d’acqua e pesci. A volte rimangono impigliati nelle reti dei pescatori e loro li riportano a riva, legandoli con una corda alla barca. I vigili del fuoco ne hanno raccolti tanti, lasciati sulla banchina del porto o avvistati in qualche spiaggia o in mezzo agli scogli. Mi racconta che esiste un posto all'interno del cimitero dell'isola dove portano i migranti che non ce l'hanno fatta, una specie di fossa comune, dove vengono sepolti i senza-nome. Nel cimitero si trova  anche la tomba di una giovane ragazza nigeriana deceduta durante il viaggio, mentre il governo italiano e quello di Malta facevano a ping-pong per scaricarsi a vicenda la responsabilità di ricevere i migranti.

Battista ne ha viste davvero tante, vite di migranti sospese al filo della speranza. Lui e i lampedusani lo sanno che sono povera gente, e quelli che non lo vogliono capire, è perché non hanno visto con i loro occhi. Vuole condividere con me una storia a lieto fine, perché siamo diventati un po’ tristi. Mi racconta di una notte dei primi giorni di marzo duemilaundici. La Guardia Costiera aveva individuato una barca di migranti nei pressi di Cala Galera, la caletta rocciosa adiacente al campeggio dove siamo alloggiati per il campo di Amnesty International. I Vigili del Fuoco erano stati chiamati per coadiuvare i soccorsi. Battista era lì in piedi, sopra le rocce, dice che le onde erano alte fino a otto metri e la barca era stracolma di persone, poteva rovesciarsi da un momento all’altro. Le operazioni di soccorso erano difficilissime, Battista mi confessa di aver pensato che non ce l’avrebbero mai fatta a salvarli. Ad un tratto un’onda gigantesca ha sollevato la barca da sotto con una forza immensa e l’ha poggiata sopra le rocce, ritirandosi. I migranti sono tutti scesi dall’imbarcazione senza neanche un graffio. Battista mi dice che quella fu una scena incredibile, da far venire i brividi. Certe cose non si possono credere se non le vedi con i tuoi occhi, dice, è stato un vero miracolo. Poco dopo l’imbarcazione fu distrutta dal mare in tempesta, ma i resti sono ancora là sotto il mare, a Cala Galera. Credo a Battista, che ha visto con i suoi occhi e mi vengono i brividi.

Quante storie di migranti sono a lieto fine e quante no?


Resti presso "il cimitero delle barche" vicino al porto - Foto Maria Angela Rocchi

La maggior parte di noi campeggiatori è appena rientrata da Lampedusa, quando domenica 31 agosto riprendono gli arrivi dei migranti. La settimana successiva è segnata da eventi tragici: durante i soccorsi di un natante con a bordo 296 migranti, vengono scoperti 25 cadaveri all’interno della stiva. Insieme alla Guardia Costiera e alla Guardia di Finanza i Vigili del Fuoco si occupano del recupero dei corpi.

Scossa dalla notizia, contatto Battista al telefono.
Mi riferisce che i soccorsi sono iniziati alle 4 del mattino e che i corpi sono stati prelevati dai vigili del fuoco provvisti di auto protettori. I vigili sono tornati in caserma alle 6.30, stremati. I colleghi hanno raccontato di aver visto uno spettacolo agghiacciante, stentavano ad entrare nella stiva, c’era un caldo insopportabile ed hanno dovuto tirar su i corpi uno per uno con delle corde, è stato un lavoro massacrante. “Vedere una scena del genere, morti per niente, povera gente indifesa”, mi dice Battista, “sembravano tonni quando si fa la mattanza”.  Battista mi aveva raccontato di altre volte in cui i cadaveri di alcuni migranti erano stati ritrovati a riva o tra gli scogli, o portati da pescherecci, ma “una scena così tremenda”, dice ancora Battista, “non l’avevano mai vista prima”. L’autopsia disposta dalla Procura di Agrigento su due dei 25 corpi ha stabilito che i migranti hanno ricevuto colpi di bastone mentre cercavano di risalire attraverso la botola, respinti dagli altri perché non c’era più posto sul ponte e la barca avrebbe rischiato di rovesciarsi.

Il bollettino di questa che appare una lotta estrema per la sopravvivenza parla di 271 sopravvissuti, portati in questura con l’accusa di omicidio colposo e di 23 nigeriani e 2 somali tutti sotto i 30 anni, che non ce l’hanno fatta. Sei di loro, sono stati seppelliti a Lampedusa, nel cimitero di cui Battista mi aveva parlato, e gli altri 19 nei cimiteri in provincia di Agrigento. I sopravvissuti sono stati trasferiti nel C.I.E. di Contrada Imbriacola e, i minori, alla ex base Nato Loran.

 I giorni seguenti portano altre cattive notizie, Battista mi tiene aggiornata per telefono: una barca col motore in avaria in acque libiche non ha ricevuto soccorsi, nonostante una nave Nato si trovasse a sole 27 miglia di distanza; i migranti sono rimasti per giorni fermi in mare prima che fossero raggiunti dalla Guardia Costiera italiana. I migranti a bordo hanno raccontato di decine di morti, forse un centinaio, buttati in mare, soprattutto donne e bambini, i più deboli che non hanno resistito alla sete, al caldo, alla fame. Il cadavere di un ragazzo è stato portato a terra e per ore le ambulanze hanno fatto la spola tra la banchina del porto e il poliambulatorio, per soccorrere i migranti giunti in condizioni pessime e affidati alle cure della Croce Rossa e di Medici Senza Frontiere. Vi erano anche due ragazze in stato di gravidanza che sono state trasportate in elicottero in un ospedale siciliano, per minaccia di aborto. Battista mi racconta tutto con tanta partecipazione: “sono innocenti che salgono sulle barche senza rendersi conto del viaggio che vanno affrontando”.

Ha ragione Battista, sono persone innocenti, che si affidano a trafficanti di vite umane, per inseguire la speranza di una vita migliore, lontana dalla guerra e dalla fame, oltre quel mare grande fatto d’acqua e pesci, e fatto anche di persone, migranti, che lo attraversano, quel “mare nostrum” che è diventato anche il loro, strada che rende liquidi i confini, dove le vite e i destini si mescolano in cerca di aiuto. Queste persone sperano nel nostro aiuto, e noi europei, che prendiamo decisioni di guerra e pace, sopra nazioni e singoli destini, di ricchi potenti così come di povera gente comune, li rinchiudiamo per mesi dentro ai C.I.E., come fossero pericolosi criminali.

E’ davvero un paradosso che una nave Nato, impegnata in una guerra contro il regime di Gheddafi, a sostegno della rivoluzione democratica del popolo libico, lasci morire in mezzo al Mediterraneo centinaia di persone senza rispondere al loro SOS. Lampedusa è una piccola striscia di terra in mezzo al mare, ma una grande cartina di tornasole di tutte le contraddizioni della politica italiana ed europea.

E’ assurdo che a Lampedusa non nasca nessun italiano dagli anni ’90, mentre nascono piccoli migranti, ma senza patria, perché l’Italia non prevede lo “ius soli”. I lampedusani sono costretti a viaggiare per far nascere i propri figli e ad affrontare pesanti spese, mentre i migranti rischiano di morire per far nascere i propri figli in una terra che non è la loro, ma in cui sperano di essere accolti.

        I lampedusani come Battista l’hanno capito che la vita va accolta, non respinta, quella vita che chiede più attenzione e umanità: il governo italiano risponda alle esigenze di cittadini che vivono in condizioni di isolamento insulare, se non con un ospedale specializzato, almeno con aiuti economici per usufruire dei servizio sanitario altrove; e la smetta di battere “pugni di ferro” e sia portavoce in Europa di una nuova politica di accoglienza adeguata a chi ha l’unica colpa di essere nato in luoghi ostili alla vita e di migrare in cerca di un futuro migliore.

- Maria Angela Rocchi -

sabato 6 agosto 2011

Perchè il blog si chiama "Migrante nostro"?

Dal 23 al 30 luglio in 41 ragazzi provenienti da tutt'Italia e non solo, ci siamo ritrovati a Lampedusa, dando vita al primo campeggio dei diritti umani promosso da A.I .
In questa settimana abbiamo lavorato su come portare a conoscenza,anche in maniera creativa, la situazione dei migranti nei C.I.E. e sulle loro condizioni.
Ed ecco che entrano in scena Gianmarco Giuliana ed Helena Caruso che, aiutati dalle loro menti brillanti, creando una versione geniale e commovente del Padre Nostro. 


 Clicca qui per guardare il video.
Migrante Nostro
   
Migrante nostro
Che sei nei centri
Sia rispettato il tuo nome,
Venga il giorno in cui ovunque la terra ti accolga,
Sia restituita la tua Dignità,
Come in mare
Così in terra.
Che non ti sia negato il pane quotidiano
E perdona a noi la violazione dei tuoi diritti
Come noi ci impegniamo a non esserti più debitori.
   
E non ricorriamo ingiustamente alla detenzione
ma liberiamoli dal mare.

AmIn*


*AMnesty INternational

Riportiamo qui il link di Alessandra Ballerini http://www.alessandraballerini.com/ che così ci definisce:
"Questi ragazzi così belli e creativi sono la nostra Italia migliore, da difendere e far crescere.
Penso a loro sull'aereo. E ricomincio a sperare.
Cogliamo l'occasione per ringraziarla della sua inestimabile e preziosa presenza  a Lampedusa.

FAQ sul tema dei pregiudizi legati all'immigrazione irregolare.

Il questionario di domande e risposte, elaborato dai partecipanti al "campeggio dei diritti umani" promosso da Amnesty International nell' isola di Lampedusa, che trovate qui di seguito, rappresenta un utile vademecum per chiunque debba confrontarsi con quei diffusi e fastidiosi luoghi comuni capaci di influenzare, in maniera preoccupante, l'opinione personale di buona parte della popolazione italiana sul tema dell'immigrazione irregolare.


Questionario D&R  Come potete provare che ci sia una valorizzazione turistica di Lampedusa visto che i gestori di attività di ricezione lamentano un calo di presenze dell’80%?La nostra intenzione è valorizzare il turismo: la realtà è serena e diversa dall’immagine fornita dai media. Quanto al calo di presenze non abbiamo ancora dati certi e sarebbe più opportuno valutare la stagione alla sua conclusione.

Perché le forze militari impiegate a Lampedusa non dovrebbero essere autorizzate a "respingere" visto che l’Europa è contraria all’ingresso di queste persone?
 Il respingimento immediato è contrario al diritto internazionale e in particolare alla Convenzione delle NU relativa allo Status dei Rifugiati entrata in vigore in Italia nel 1955. Infatti, si violerebbe il principio del "non-refoulement", in base al quale gli individui a rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti nei propri paesi d’origine non vi possono essere rimandati.

Si può comprendere l’accoglienza di persone che scappano da guerre, ma i tunisini non sono in guerra. Perché accoglierli?
Non è possibile fare questa distinzione a propri, perché non conosciamo le situazioni individuali e quindi non è detto che un cittadino di un paese non in guerra non sia a rischio di violazione di diritti umani nel proprio paese d’origine.
Anche se la maggior parte dei tunisini sono migranti considerati economici dobbiamo considerare che la situazione politica in Tunisia è instabile a causa della recente Primavera Araba.

L’Italia è in crisi economica e molte famiglie non arrivano alla fine del mese, perché sprecare soldi per soccorrere questi clandestini e fornire loro vitto e alloggio?
L’Italia ha il dovere di soccorrere le persone in mare in difficoltà secondo gli obblighi internazionali assunti. Costa di più violare i diritti umani, tramite l’istituzione di centri di detenzione, che non rispettarli. Basti pensare che la permanenza quotidiana di ogni persona internata in un Centro di Identificazione ed Espulsione ha un costo che si aggira intorno ai 50 euro al quale vanno aggiunte le ingenti spese per le attività di pubblica sicurezza. Si tratta di somme considerevoli che ben potrebbero essere impiegate in percorsi d’inserimento dei migranti ovvero, quantomeno, per finanziare progetti individuali di rimpatrio volontario.

Il vostro atteggiamento incentiva nuovi sbarchi, siete disposti ad accoglierli in casa vostra?
Sì, sarei disposto/a, ma non dovrebbe essercene il bisogno se venissero fornite le strutture di assistenza da chi di dovere.

Dare dei diritti a chi non rispetta quelli delle donne non è giusto. Gli arabi non lo fanno. Come donna/come uomo che rispetta le donne io non li voglio in Italia.
Prima di essere uomo o donna un migrante è una persona. E per questo ha il diritto di essere accolta. Se poi saranno compiute delle violazioni, si dovrà valutare il caso, ma non può essere punito a priori. Inoltre i dati di violenza sulle donne sono piuttosto trasversali tra i Paesi.

Non è corretto concedere il permesso di soggiorno a chi non è entrato secondo le vie legali. Bisogna rimandarli a casa loro.
La legislazione italiana non facilita l’ingresso legale nel nostro Paese e questo è il motivo per cui il numero di ingressi illegali sono così alti.

Si devono aiutare i paesi di provenienza in cambio delle loro azioni per fermare i viaggi?
Occorre valutare quali sono le azioni che vengono intraprese per fermare i viaggi da parte del Paese d’origine. Se ci troviamo di fronte a una situazione analoga a quella sussistente in Libia, in cui i viaggi vengono fermati a prezzo di una sistematica violazione dei diritti umani, ovviamente l’aiuto economico non può essere giustificato.

Persone non abituate a rispettare la legge sono pericolose per la sicurezza degli italiani.
Non dobbiamo correre il rischio di generalizzare. Va valutato caso per caso, senza cadere in banali luoghi comuni.

Questo buonismo porta ad avere in Italia dei lavoratori stranieri che toglieranno il lavoro agli italiani. Non pensa che bisognerebbe dare sempre e in tutti i campi la priorità agli italiani?
Secondo le statistiche la maggior parte dei lavori svolti dagli immigrati è da qualche tempo abbandonata dagli italiani, perché troppo faticosi e sotto pagati. Inoltre, la stessa Confindustria richiede periodicamente manodopera straniera.

Tra i clandestini, la % di maschi è notevolmente superiore a quella delle donne. La % di stupri aumenterà per ovvi motivi. Dovremo chiudere le nostre donne in casa per proteggerle?
Non possiamo presumere la colpevolezza delle persone solo perché immigrati irregolari. Inoltre, più del 90% degli stupri sono perpetrati ad opera di familiari, amici e conoscenti delle vittime.


venerdì 5 agosto 2011

Intervista a Dagmawi autore del film documentario "Come un uomo sulla terra"che ha rotto il silenzio sugli accordi tra Italia e Libia.

Incontriamo Dagmawi Yimer il 24 luglio 2011 nella parrocchia locale di Lampedusa. C’è la proiezione del suo ultimo documentario "Soltanto Il Mare", su Lampedusa. Lampedusa è sempre rimasta nel suo cuore. Il suo film mostra un grande rispetto e curiosità per gli abitanti dell 'isola dove lui e centinaia di altri sono arrivati nel 2006 con una barca. Dopo un terribile viaggio dall’Etiopia, sua terra d'origine, attraverso il Sudan e Libia. Ha vissuto tutti gli orrori che tanti altri hanno sperimentato nei loro tentativi di trovare un pò di pace e sicurezza. Ecco perché ha fatto il film "Come un Uomo Sulla Terra"*Due giorni dopo, Valerio, Michela ed Pieter incontreranno Dag a l'aeroporto di Lampedusa, prima della sua partenza a Roma, la città dove vive dal 2006 come rifugiato riconosciuto per intervistarlo. Dag è uno dei tanti rifugiati africani che han preso la decisione difficile di lasciare il proprio paese per cercare protezione altrove. La  destinazione da sogno è di solito l'Europa.La maggior parte di loro non sanno cosa gli aspetterà. L'Italia ha firmato nel 2008 il "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione" con il leader libico Gheddafi, ma prima l'Italia aveva già concluso diversi accordi segreti con la Libia. L'intenzione era di mettere ostacoli nella via in cui i rifugiati si impegnano a raggiungere l'Europa. L'Europa dà il comando, la Libia mette gli ostacoli. Gli altri fanno i lavori sporchi per noi.
 Ma quali sono le storie umane dietro l'accordo tra Italia e Libia?
Come sono stati i vostri rapporti con le autorità libiche? “Ho provato umiliazione. Quando vieni arrestato 2 volte senza sapere perché, provi umiliazione. Quando ti mettono in una cella dove il bagno non ha lo scarico, ti senti umiliato. Quando non riesci a mangiare perché, oltre al fatto che il cibo  non é buono, gli odori nauseanti del wc non funzionante ti levano l appetito, ti senti umiliato. Quando la polizia ti bastona con ogni scusa perché magari non capisci la loro lingua, ti senti umiliato. Non capisci perché ti stia picchiando, non capisci l’ordine che ti ha dato e non sai dove hai sbagliato. Allora cerchi di fare cio che pensi di capire che loro vogliono.”

“Quando arrivi e vuoi chiedere tutela, ti danno un modulo e tu devi scrivere, costruire il tuo caso per la comissione (quella che valuterà se accettare la tua richiesta o meno) in poco tempo, ma sei ancora sotto shock. Non ti danno tempo per riprenderti per ricostruire la tua vita, per ricordare. Perché spesso ti dimentichi i momenti che hai vissuto da tanto sono brutti.”
 Dag in base al tuo vissuto come valuti le procedure adottata.“Io sono arrivato con altri etiopi che erano nella mia solita situazione, con il mio solito vissuto. Ma non a tutti hanno concesso la protezione umanitaria e mi sembra strano, sono stato fortunato. Ho la sensazione – ma questa é solo una mia personale opinione – che la commissione lavori a percentuale, che comunque piu’ di un certo numero di permessi non li diano anche se ne avrebbero diritto. Penso che molto dipenda dall interprete da come lui riesca a passare la stessa emozione.”
Qual é stato l impatto in Italia ed in particolare con le forze dell ordine?“Premettendo che la situazione all epoca era diversa da ora, non ho avuto problemi in termini di violenze fisiche. Ho ottenuto i documenti per il permesso in 2 mesi, anche se per il rinnovo i tempi si allungano molto circa  7 mesi. Comunque a Roma i poliziotti ti trattano in maniera umiliante. Possono fare e dirti quello che vogliono. Come quando mi ricordo che durante un rinnovo, mi chiedono di togliere la giacca per fare una foto, non capisco subito cosa vogliano e perché ma lo faccio ugualmente. Forse data la mia esitazione ho ricevuto insulti come ‘che cazzo combini’ e quando mi prendono le mie impronte digitali loro le guardano e dicono ridendo fra loro ‘che cazzo di impronta é’. Io penso solo che quella era la mia impronta e non poteva essere strana perche tutte le impronte sono diverse . Ti senti umiliato perché sai che non puoi reagire minimamente perché tutto peggiorerebbe.”
Dag ci spiega che i tempi di durata del permesso prima era di qualche mese ma oggi é aumentato. Chiediamo se ci potrebbe far  vedere i suoi documenti dato che non abbiamo mai visto un permesso di soggiorno per motivi di umanita.
Il suo documento è molto simile alla nostra carta d'identita:
al lato destro è apposta la sua foto e al lato sinistro si trovano i campi da riempire quali:
nome, cognome, data di nascita, altezza,colore occhi e capelli...
rabbrividiamo nel leggere a penna un, non descrivibile, "VEDI FOTO"...
 Ci spiega che un mese prima che scada, devi andare e lasciare il documento, per fare il rinnovo e loro ti consegnano un cedolino provvisorio. La procedura e molto lunga e Dag ci racconta che quando finalmente il permesso di soggiorno é rinnovato, il personale competente al momento di datare il timbro, non pone la data dell effettivo rilascio ma appongono quella del giorno in cui scadeva.
Cosa ti aspettavi una volta arrivato in Italia?
“Sapevo che sarebbe stato difficile tutto. Non ero sicuro di arrivare in Italia, non ero sicuro che mi avrebbero concesso protezione. Ma pensavo che una volta ottenuto il diritto di asilo l’accoglienza sarebbe stato maggiore, perche una volta che ottieni il permesso, il tuo percorso non é finito. Rimani comunque senza una casa, senza un lavoro. Il tutto é angosciante pensare diventa un lusso. Non hai tempo di rielaborare la tua vita che invece scorre un problema dopo l’altro. Siamo costantemente in viaggio. Non ti senti mai in pace.”



Dove pensi di essere e cosa pensi di fare da qui a 10 anni?

“Non lo posso dire. Non lo posso piu sapere quando ero giovane, non avrei mai pensato di andarmene via dal mio paese. Quando sono partito, non avrei pensato di vivere cio che ho vissuto ed ora non credo piu di poter progettare la mia vita in futuro. L’unica cosa certa é che ho una compagna  che aspetta un figlio da me e questo mi rende felice. Mi piacerebbe magari tornare in Etiopia per occuparmi li di cio che sto facendo qui informare e tutelare.”

Dag continua a sentirsi fortunato, perché sente in continuazione storie più drammatiche (stupri violenze). Si sente fortunato, perché puo raccontare cio che altri non hanno la possibilità di dire e di questo ringrazia le persone che lo hanno accolto, che gli sono stati vicino e gli hanno dato voce.


Pieter Stockmans
Michela Castiglione
Valerio Pascali * Il film "Come un Uomo Sulla Terra" ha rotto il silenzio, come nessun altro, sugli accordi tra Italia e Libia. Questo racconto in prima persona, rende la vergognosa estradizione di migliaia di uomini, donne e bambini verso un regime crudele e dittatoriale come la Libia, molto tangibile.  
Legge piu qui (traduzione Google Translate del'articolo in olandese): http://translate.google.be/translate?js=n&prev=_t&hl=nl&ie=UTF-8&layout=2&eotf=1&sl=nl&tl=it&u=http%3A%2F%2Faivl.blogspot.com%2F2011%2F08%2Fdagmawi-yimer-ethiopisch-vluchteling-en.html&act=url
 Michela, Valerio, Dag ed io