giovedì 11 agosto 2011

IN MARE CON 'VINCENZO PADRE'

Il peschereccio di Antonino Maggio, detto Nino, è ormeggiato al porto vecchio di Lampedusa, lì, proprio di fronte alla collinetta della vergogna, protagonista centrale degli eventi del febbraio e del marzo scorso. 
Il suo nome è 'Vincenzo Padre'. Nino ha voluto dedicarlo a suo papà, la persona che più di ogni altra gli trasmise la passione per il suo grande amore. Il mare. 
Sa ogni cosa della sua barca. Ha seguito passo per passo la sua costruzione, dedicandosene completamente. Ne è talmente orgoglioso che non riesce a non esprimere il suo entusiasmo. Lo si percepisce innanzitutto dai suoi occhi, vispi e sempre con lo sguardo diretto al timone. Lo si percepisce poi dalle sue parole. E' un chiacchierone Nino. E' orgoglioso dei suoi successi raggiunti con estrema fatica e determinazione ed è orgoglioso della conoscenza acquisita in anni di esperienza in mare. Non ha segreti per lui e di certo non gli fa paura. 
La nostra esperienza prende il via mercoledì alle 17.30. E' a quell'ora che mettiamo piede sul peschereccio. 
La cosa che più probabilmente colpisce è il colore: il rosso, il verde, il bianco e il blu contrastano a tal punto l'uno dall'altro che non è possibile non rimanere folgorati dalla maniera in cui sono accostati. E' un tripudio. 
Poi ci sono le reti che vengono accudite quasi fossero le loro figlie. Sempre lì a proteggerle ed a curarne  le ferite. 
Raggiungiamo l'equipaggio ed iniziamo ad approfondire la conoscenza. La barca è un via e vai continuo di persone e di storie, ma sono soltanto tre le persone, che oltre al capitano Nino, lavorano sul peschereccio: Pino, il cuoco, che con la sua battuta sempre pronta non perde l'occasione di far notare la sua solarità, che attribuisce alla sua natura isolana; c'è Sanah, un ragazzo senegalese, in Italia da diversi anni; gran lavoratore e gran pescatore, ha portato all'interno del peschereccio la sua expertise, acquisita durante gli anni di duro lavoro nel continente africano. Infine c'è Bartolomeo, il più riservato del gruppo, ma che ha contribuito in ogni modo a farci sentire a casa con la sua grande ospitalità.


Alle 19 la 'Vincenzo Padre' salpa. Meta: dieci miglia a sud-est, direzione Tunisia. E' qui, quando ci spostiamo nella cabina del comandante, che Nino inizia a raccontarci la sua storia. E' dall'età di sette anni che ogni giorno, dopo scuola,  raggiungeva il padre al porto e salpava con lui; è stato questo periodo che gli ha consentito di venire a conoscenza dei più piccoli trucchi della pesca, che oggi fanno di lui il gran pescatore che è. Quando suo padre venne a mancare, Nino dovette prendere il suo posto e a soli vent'anni divenne capitano di un peschereccio con un equipaggio di ben sedici persone, tutte più anziane di lui. 
Quello che emerge è che è come se Nino avesse fatto del lavoro la sua missione di vita. Una sorta di patto con suo padre. La grande responsabilità che dovette affrontare lo ha reso, seppur ancora molto giovane, un uomo di onore. Così continuò a garantire loro un posto di lavoro e a portare avanti ciò che suo padre gli consegnò in vita.
Ora, dopo praticamente quarant'anni di mare, Nino domina il suo peschereccio in maniera perfetta, grazie anche al contributo delle tecnologie sulle quali ha investito.
Noi ci sentiamo sicuri.
Inoltrarci nel dialogo con Nino non è difficile. Dopo averci accuratamente spiegato, con un certo orgoglio, i dettagli del tipo di pesca di cui si occupa, le modalità specifiche con cui avviene, le zone di pesca che deve rispettare a tutela della flora e della fauna marina e via dicendo, senza difficoltà, arriviamo ad affrontare le tematiche a cui noi, ragazzi di Amnesty International, siamo particolarmente interessati. Nino inizia a spiegarci come ha vissuto lui, marinaio e uomo di mare, gli sbarchi e gli incontri in acqua. Come la popolazione lampedusana ha reagito a quella che Nino ha definito una vera e propria invasione. La prima cosa che pensò quando si vide davanti ondate e ondate di migranti camminare per il paese fu 'ci hanno preso l'isola'.
Le televisioni e i giornali parlano di circa sei mila immigrati approdati a Lampedusa. Lui non ci crede. Erano almeno il doppio secondo Nino; dodici mila persone tra nord-africani  e sub sahariani, a giudicare dagli spazi occupati. Dai racconti del capitano emerge l'immagine di un'isola totalmente occupata, senza uno spazio libero per respirare. 
Uno ammassato sull'altro. Neanche fossero delle sardine.
Questa situazione ha portato ad un degrado estremo dell'isola, sfociato nelle nota immagine della collina della vergogna: oggi a distanza di quattro mesi questa zona mantiene i segni tangibili della condizione totalmente lesiva della dignità umana, imposta in maniera arbitraria a queste persone. 
Dormivano ovunque. 
Mangiavano ovunque. 
Si costruivano ripari ovunque e con qualsiasi cosa che capitava loro in mano.
Le storie di solidarietà della popolazione lampedusana nei confronti dei migranti sono molteplici ed emozionanti. 
Quando si chiede di assegnare il premio Nobel per la Pace a Lampedusa si intende premiare un'isola e dunque la sua popolazione, per l'estrema umanità, pazienza e dignità con cui è riuscita a gestire una situazione che facilmente sarebbe potuta sfociare in una e vera e propria guerriglia.
Invece i lampedusani si sono presi cura di loro. Li hanno vestiti, nutriti e soprattutto hanno comprato loro acqua, cibo, calze e vestiti senza limitarsi a osservare la situazione da dietro una finestra, sono intervenuti attivamente per restituire una dignità a queste persone. Hanno offerto loro un tetto sotto cui dormire e lo stesso Nino ha ospitato un gruppo di tunisini nel suo garage e ha comprato cibo ad un ragazzo che gli aggiustò l'automobile e che non volle in cambio nessun soldo. Ha permesso di caricare i cellulari  per consentire  loro di avvisare la famiglia del loro arrivo e del loro stato di salute. 
Questa è l'immagine che forse ha segnato maggiormente la memoria della gente ed è diventata simbolo della profonda cooperazione e unione di forze che ha connotato questa crisi: fili e fili di  caricatori di cellulari nelle prese di corrente delle famiglie lampedusane alle quali va attribuito il grande merito di essere riuscite a controllare la rabbia nei confronti della situazione ed ad incanalarla in atti che, senza alcuna retorica, possono essere descritti con un solo termine: magnanimità.
Come in ogni situazione, anche qui non mancano anche risvolti che mettono in rilievo l'altra parte della medaglia. Quella della tensione e della paura
Tensione e timore provato dalla figlia ventenne di Nino nel girare da sola per il paese e il suo conseguente chiudersi a chiave in casa e rimanerci per un discreto tempo. 
Tensione che nasce da gesti di stizza, da calci nervosi contro le automobili, da risposte tracotanti e da situazioni dettate da stanchezza e sfinimento.
La convinzione condivisa da quasi tutti a Lampedusa è, comunque, la consapevolezza che quella  di febbraio e marzo è stata una crisi creata ad hoc dal governo italiano, che si collega a quella campagna di criminalizzazione del migrante di qualche anno prima. Con intenzioni demagogiche che puntano su un linguaggio che enfatizza termini come invasione e terrorismo che generano paura e insicurezza. Ci troviamo di fronte, infatti, a un cortocircuito informativo che sicuramente non ha giovato all’isola; tutt’altro! Ha portato ad una diminuzione esponenziale del turismo (circa 80 %), risorsa fondamentale per la sussistenza dell’isola che è degenerata in un’insofferenza della popolazione nei confronti dei giornalisti che hanno mostrato un’immagine completamente distorta della situazione sull’isola.
La solidarietà dei lampedusani non si limita alla terra ferma, ma ha come spazio privilegiato il mare. Nino si è soffermato molto su i suoi incontri con navi di migranti in acqua. E la sua posizione, da subito, è stata molto chiara. In situazioni di pericolo, al di là delle procedure burocratiche,logistiche e legali che bisognerebbe seguire, la cosa che conta è una e una soltanto: la tutela della vita umana. E come lui ha voluto sottolineare è disposto ad affrontare il tribunale piuttosto che lasciare una vita in mare.


Spesso è capitato a Nino di incontrare navi in estrema difficoltà: sempre ha deciso di fermarsi a soccorrerle, sempre ha offerto acqua, cibo ed ogni tipo di necessaria assistenza, e sempre ha chiamato motovedetta e capitaneria di porto. Ha anche manifestato con una certa stizza i profondi ritardi delle unità di soccorso che molto spesso interrompono addirittura le ricerche per, a detta loro, falso allarme, a detta di Nino, grande incompetenza.
Inoltre una fattore su cui Nino s’è soffermato particolarmente è il fatto che nella maggior parte dei casi i soccorsi si limitano all’azione di accogliere gli immigrati sull’imbarcazione delle forze dell’ordine, che poi, però abbandonano la nave alle vicissitudini nel mare creando anche un certo pericolo per i pescatori che si trovano a scontrarsi con questi relitti che non sempre vengono segnalati dai radar.
Da subito Nino ha sottolineato che lo stato delle imbarcazioni con cui queste persone si accingono, molto spesso, a intraprendere il viaggio della vita, non è per nulla adeguato. 
Sono talmente arrugginite, costruite in modo tale da non riuscire a reggere un mare forza quindici. Navi che si ribaltano con facilità disarmante. Vecchie, vendute a contrabbandieri da pescatori a pochi soldi per un viaggio, invece, molto caro per chi vi partecipa.
 Tutti i risparmi impiegati ed investiti in un sogno. Il sogno di una vita vissuta nella dignità, che prevede diritto ad una abitazione, diritto ad un lavoro regolare, diritto anche e soprattutto alla felicità.
Nino è integerrimo. Il suo rapporto con il mare è una questione d’onore. Sul suo peschereccio vige una legge ben precisa: la difesa della vita umana viene prima di qualsiasi altra legge positiva.
E da qui che forse emerge maggiormente il rapporto di Nino con il mare. E' uno stile di vita oltre che la sua più grande passione. E' la via con  cui il capitano si approccia a tutte le dinamiche che possono verificarsi e caratterizzare situazioni fuori e dentro il mare. 
Ha sempre sfidato la legge quando s'è trattato di soccorrere persone in estrema difficoltà, come avvenne nell'agosto del 1998, quando uno yacht prese fuoco e lui, Nino, andando nella direzione opposta a quella stabilita dalla capitaneria di porto, mise la sua expertise al servizio della vita di tre persone. Le salvò e se ne prese cura. 


Nino è un grand'uomo.
Questa è la prima cosa che io e Fulvio abbiamo pensato scendendo dal peschereccio, dopo quindici ore di navigazione, alle nove del mattino di giovedì.
E' stata un'esperienza a dir poco emozionante: ascoltare storie di vita, storie di morte; assistere ai movimenti di questi pescatori che durante tutta la notte, senza dire alcuna parola, comunicavano tra di loro, quasi danzando tra reti e corde, tra calamari e sarde. 
Alba e tramonto. Delfini. Via lattea. Tanta condivisione e soprattutto la consapevolezza di essere in un'isola, che, al di là delle eccezioni, porta il valore della dignità umana, della vita e della solidarietà davanti a tutto.
A Nino il mare non fa paura.
E la nostra speranza è che un giorno, non troppo lontano, possa smettere di essere un incubo anche per coloro che ne devono subire la sua forza devastante.



Paola Plona

lunedì 8 agosto 2011

Nascere e morire a Lampedusa

Incontro Battista venerdì sera all’interno del Percorso della memoriaallestito nella piazza della chiesa dai noi ragazzi e ragazze del campeggio per i diritti umani di Amnesty International. Con questa rappresentazione, fatta di oggetti, parole, fotografie, abbiamo cercato di ripercorrere il viaggio dei migranti, dalla partenza sino al loro arrivo, momento in cui si profilano le due facce dell’accoglienza: il soccorso congiunto delle varie forze dell’ordine e delle associazioni umanitarie da un lato, e la detenzione presso i C.I.E. dall’altro, che li imprigiona in quanto accusati di reato di clandestinità. Per alcuni si prospetta un altro bivio durante il percorso: il non-arrivo, destinato a coloro che purtroppo non ce la fanno.

                Battista lavora nel corpo dei Vigili del Fuoco e guardando gli scalini vuoti della chiesa mi dice che nel periodo tra febbraio e marzo i migranti si accampavano un po’ ovunque e su quegli scalini si sdraiavano per dormire, ricoprendoli completamente, tanto che i fedeli dovevano utilizzare entrate alternative per recarsi a messa la domenica mattina. La piazza è spaziosa e semi-vuota adesso, difficile immaginare una tale calca di persone ammassate ovunque.

Il vigile del fuoco mi racconta di aver partecipato a molti interventi di soccorso, il suo tono si fa serio e accorato. Ha visto tante gente in condizioni disperate arrivare per mare cercando salvezza. Molto spesso lui e i suoi colleghi hanno recuperato donne con piccoli neonati, che piangevano senza sosta, perché non avevano avuto acqua né cibo per almeno tre giorni, in mezzo a quel mare grande fatto d’acqua e pesci. Me lo dice con tanta dolcezza perché, dice, quando quelle creature le hai davanti agli occhi, ti si stampano dentro e non te le scordi più. Racconta che ad alcune donne capita di partorire durante il viaggio, in mezzo a duecento-trecento persone, tante quante i trafficanti riescono a stiparne in quei vecchi pescherecci dismessi. Alcune donne in stato di gravidanza giungono con il travaglio già in corso e vengono accolte presso il poliambulatorio di Lampedusa, che non ha un reparto attrezzato di ostetricia, ma dove i vari medici presenti insieme a quelli della ONLUS Medici Senza Frontiere, assistono molte partorienti come meglio possono ed hanno aiutato a nascere molti piccoli migranti.

Strana isola Lampedusa, dove le migranti partoriscono, quasi per caso, perché la vita non può aspettare, preferendo rischiare tutto, la propria salute e quella di un figlio non ancora nato, pur di fuggire da terre in guerra, inospitali, dove la legge è la tortura, e il futuro promette solo fame e ingiustizia; strano posto, i cui abitanti preferiscono programmare il cesareo presso gli ospedali di Palermo, Agrigento, Catania, perché impossibile da praticare negli ambulatori di Lampedusa dove non esiste una sala operatoria, per non incorrere in alcun rischio, preferendo ricoverarsi in strutture attrezzate per ogni imprevisto, affrontando costi altissimi, da cinque fino a diecimila euro, per far nascere un figlio.

Battista mi parla  tristemente anche di quelli che non ce l’hanno fatta. Sono tanti, migliaia, non lo sapremo mai, dispersi in questo grande mare fatto d’acqua e pesci. A volte rimangono impigliati nelle reti dei pescatori e loro li riportano a riva, legandoli con una corda alla barca. I vigili del fuoco ne hanno raccolti tanti, lasciati sulla banchina del porto o avvistati in qualche spiaggia o in mezzo agli scogli. Mi racconta che esiste un posto all'interno del cimitero dell'isola dove portano i migranti che non ce l'hanno fatta, una specie di fossa comune, dove vengono sepolti i senza-nome. Nel cimitero si trova  anche la tomba di una giovane ragazza nigeriana deceduta durante il viaggio, mentre il governo italiano e quello di Malta facevano a ping-pong per scaricarsi a vicenda la responsabilità di ricevere i migranti.

Battista ne ha viste davvero tante, vite di migranti sospese al filo della speranza. Lui e i lampedusani lo sanno che sono povera gente, e quelli che non lo vogliono capire, è perché non hanno visto con i loro occhi. Vuole condividere con me una storia a lieto fine, perché siamo diventati un po’ tristi. Mi racconta di una notte dei primi giorni di marzo duemilaundici. La Guardia Costiera aveva individuato una barca di migranti nei pressi di Cala Galera, la caletta rocciosa adiacente al campeggio dove siamo alloggiati per il campo di Amnesty International. I Vigili del Fuoco erano stati chiamati per coadiuvare i soccorsi. Battista era lì in piedi, sopra le rocce, dice che le onde erano alte fino a otto metri e la barca era stracolma di persone, poteva rovesciarsi da un momento all’altro. Le operazioni di soccorso erano difficilissime, Battista mi confessa di aver pensato che non ce l’avrebbero mai fatta a salvarli. Ad un tratto un’onda gigantesca ha sollevato la barca da sotto con una forza immensa e l’ha poggiata sopra le rocce, ritirandosi. I migranti sono tutti scesi dall’imbarcazione senza neanche un graffio. Battista mi dice che quella fu una scena incredibile, da far venire i brividi. Certe cose non si possono credere se non le vedi con i tuoi occhi, dice, è stato un vero miracolo. Poco dopo l’imbarcazione fu distrutta dal mare in tempesta, ma i resti sono ancora là sotto il mare, a Cala Galera. Credo a Battista, che ha visto con i suoi occhi e mi vengono i brividi.

Quante storie di migranti sono a lieto fine e quante no?


Resti presso "il cimitero delle barche" vicino al porto - Foto Maria Angela Rocchi

La maggior parte di noi campeggiatori è appena rientrata da Lampedusa, quando domenica 31 agosto riprendono gli arrivi dei migranti. La settimana successiva è segnata da eventi tragici: durante i soccorsi di un natante con a bordo 296 migranti, vengono scoperti 25 cadaveri all’interno della stiva. Insieme alla Guardia Costiera e alla Guardia di Finanza i Vigili del Fuoco si occupano del recupero dei corpi.

Scossa dalla notizia, contatto Battista al telefono.
Mi riferisce che i soccorsi sono iniziati alle 4 del mattino e che i corpi sono stati prelevati dai vigili del fuoco provvisti di auto protettori. I vigili sono tornati in caserma alle 6.30, stremati. I colleghi hanno raccontato di aver visto uno spettacolo agghiacciante, stentavano ad entrare nella stiva, c’era un caldo insopportabile ed hanno dovuto tirar su i corpi uno per uno con delle corde, è stato un lavoro massacrante. “Vedere una scena del genere, morti per niente, povera gente indifesa”, mi dice Battista, “sembravano tonni quando si fa la mattanza”.  Battista mi aveva raccontato di altre volte in cui i cadaveri di alcuni migranti erano stati ritrovati a riva o tra gli scogli, o portati da pescherecci, ma “una scena così tremenda”, dice ancora Battista, “non l’avevano mai vista prima”. L’autopsia disposta dalla Procura di Agrigento su due dei 25 corpi ha stabilito che i migranti hanno ricevuto colpi di bastone mentre cercavano di risalire attraverso la botola, respinti dagli altri perché non c’era più posto sul ponte e la barca avrebbe rischiato di rovesciarsi.

Il bollettino di questa che appare una lotta estrema per la sopravvivenza parla di 271 sopravvissuti, portati in questura con l’accusa di omicidio colposo e di 23 nigeriani e 2 somali tutti sotto i 30 anni, che non ce l’hanno fatta. Sei di loro, sono stati seppelliti a Lampedusa, nel cimitero di cui Battista mi aveva parlato, e gli altri 19 nei cimiteri in provincia di Agrigento. I sopravvissuti sono stati trasferiti nel C.I.E. di Contrada Imbriacola e, i minori, alla ex base Nato Loran.

 I giorni seguenti portano altre cattive notizie, Battista mi tiene aggiornata per telefono: una barca col motore in avaria in acque libiche non ha ricevuto soccorsi, nonostante una nave Nato si trovasse a sole 27 miglia di distanza; i migranti sono rimasti per giorni fermi in mare prima che fossero raggiunti dalla Guardia Costiera italiana. I migranti a bordo hanno raccontato di decine di morti, forse un centinaio, buttati in mare, soprattutto donne e bambini, i più deboli che non hanno resistito alla sete, al caldo, alla fame. Il cadavere di un ragazzo è stato portato a terra e per ore le ambulanze hanno fatto la spola tra la banchina del porto e il poliambulatorio, per soccorrere i migranti giunti in condizioni pessime e affidati alle cure della Croce Rossa e di Medici Senza Frontiere. Vi erano anche due ragazze in stato di gravidanza che sono state trasportate in elicottero in un ospedale siciliano, per minaccia di aborto. Battista mi racconta tutto con tanta partecipazione: “sono innocenti che salgono sulle barche senza rendersi conto del viaggio che vanno affrontando”.

Ha ragione Battista, sono persone innocenti, che si affidano a trafficanti di vite umane, per inseguire la speranza di una vita migliore, lontana dalla guerra e dalla fame, oltre quel mare grande fatto d’acqua e pesci, e fatto anche di persone, migranti, che lo attraversano, quel “mare nostrum” che è diventato anche il loro, strada che rende liquidi i confini, dove le vite e i destini si mescolano in cerca di aiuto. Queste persone sperano nel nostro aiuto, e noi europei, che prendiamo decisioni di guerra e pace, sopra nazioni e singoli destini, di ricchi potenti così come di povera gente comune, li rinchiudiamo per mesi dentro ai C.I.E., come fossero pericolosi criminali.

E’ davvero un paradosso che una nave Nato, impegnata in una guerra contro il regime di Gheddafi, a sostegno della rivoluzione democratica del popolo libico, lasci morire in mezzo al Mediterraneo centinaia di persone senza rispondere al loro SOS. Lampedusa è una piccola striscia di terra in mezzo al mare, ma una grande cartina di tornasole di tutte le contraddizioni della politica italiana ed europea.

E’ assurdo che a Lampedusa non nasca nessun italiano dagli anni ’90, mentre nascono piccoli migranti, ma senza patria, perché l’Italia non prevede lo “ius soli”. I lampedusani sono costretti a viaggiare per far nascere i propri figli e ad affrontare pesanti spese, mentre i migranti rischiano di morire per far nascere i propri figli in una terra che non è la loro, ma in cui sperano di essere accolti.

        I lampedusani come Battista l’hanno capito che la vita va accolta, non respinta, quella vita che chiede più attenzione e umanità: il governo italiano risponda alle esigenze di cittadini che vivono in condizioni di isolamento insulare, se non con un ospedale specializzato, almeno con aiuti economici per usufruire dei servizio sanitario altrove; e la smetta di battere “pugni di ferro” e sia portavoce in Europa di una nuova politica di accoglienza adeguata a chi ha l’unica colpa di essere nato in luoghi ostili alla vita e di migrare in cerca di un futuro migliore.

- Maria Angela Rocchi -

sabato 6 agosto 2011

Perchè il blog si chiama "Migrante nostro"?

Dal 23 al 30 luglio in 41 ragazzi provenienti da tutt'Italia e non solo, ci siamo ritrovati a Lampedusa, dando vita al primo campeggio dei diritti umani promosso da A.I .
In questa settimana abbiamo lavorato su come portare a conoscenza,anche in maniera creativa, la situazione dei migranti nei C.I.E. e sulle loro condizioni.
Ed ecco che entrano in scena Gianmarco Giuliana ed Helena Caruso che, aiutati dalle loro menti brillanti, creando una versione geniale e commovente del Padre Nostro. 


 Clicca qui per guardare il video.
Migrante Nostro
   
Migrante nostro
Che sei nei centri
Sia rispettato il tuo nome,
Venga il giorno in cui ovunque la terra ti accolga,
Sia restituita la tua Dignità,
Come in mare
Così in terra.
Che non ti sia negato il pane quotidiano
E perdona a noi la violazione dei tuoi diritti
Come noi ci impegniamo a non esserti più debitori.
   
E non ricorriamo ingiustamente alla detenzione
ma liberiamoli dal mare.

AmIn*


*AMnesty INternational

Riportiamo qui il link di Alessandra Ballerini http://www.alessandraballerini.com/ che così ci definisce:
"Questi ragazzi così belli e creativi sono la nostra Italia migliore, da difendere e far crescere.
Penso a loro sull'aereo. E ricomincio a sperare.
Cogliamo l'occasione per ringraziarla della sua inestimabile e preziosa presenza  a Lampedusa.

FAQ sul tema dei pregiudizi legati all'immigrazione irregolare.

Il questionario di domande e risposte, elaborato dai partecipanti al "campeggio dei diritti umani" promosso da Amnesty International nell' isola di Lampedusa, che trovate qui di seguito, rappresenta un utile vademecum per chiunque debba confrontarsi con quei diffusi e fastidiosi luoghi comuni capaci di influenzare, in maniera preoccupante, l'opinione personale di buona parte della popolazione italiana sul tema dell'immigrazione irregolare.


Questionario D&R  Come potete provare che ci sia una valorizzazione turistica di Lampedusa visto che i gestori di attività di ricezione lamentano un calo di presenze dell’80%?La nostra intenzione è valorizzare il turismo: la realtà è serena e diversa dall’immagine fornita dai media. Quanto al calo di presenze non abbiamo ancora dati certi e sarebbe più opportuno valutare la stagione alla sua conclusione.

Perché le forze militari impiegate a Lampedusa non dovrebbero essere autorizzate a "respingere" visto che l’Europa è contraria all’ingresso di queste persone?
 Il respingimento immediato è contrario al diritto internazionale e in particolare alla Convenzione delle NU relativa allo Status dei Rifugiati entrata in vigore in Italia nel 1955. Infatti, si violerebbe il principio del "non-refoulement", in base al quale gli individui a rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti nei propri paesi d’origine non vi possono essere rimandati.

Si può comprendere l’accoglienza di persone che scappano da guerre, ma i tunisini non sono in guerra. Perché accoglierli?
Non è possibile fare questa distinzione a propri, perché non conosciamo le situazioni individuali e quindi non è detto che un cittadino di un paese non in guerra non sia a rischio di violazione di diritti umani nel proprio paese d’origine.
Anche se la maggior parte dei tunisini sono migranti considerati economici dobbiamo considerare che la situazione politica in Tunisia è instabile a causa della recente Primavera Araba.

L’Italia è in crisi economica e molte famiglie non arrivano alla fine del mese, perché sprecare soldi per soccorrere questi clandestini e fornire loro vitto e alloggio?
L’Italia ha il dovere di soccorrere le persone in mare in difficoltà secondo gli obblighi internazionali assunti. Costa di più violare i diritti umani, tramite l’istituzione di centri di detenzione, che non rispettarli. Basti pensare che la permanenza quotidiana di ogni persona internata in un Centro di Identificazione ed Espulsione ha un costo che si aggira intorno ai 50 euro al quale vanno aggiunte le ingenti spese per le attività di pubblica sicurezza. Si tratta di somme considerevoli che ben potrebbero essere impiegate in percorsi d’inserimento dei migranti ovvero, quantomeno, per finanziare progetti individuali di rimpatrio volontario.

Il vostro atteggiamento incentiva nuovi sbarchi, siete disposti ad accoglierli in casa vostra?
Sì, sarei disposto/a, ma non dovrebbe essercene il bisogno se venissero fornite le strutture di assistenza da chi di dovere.

Dare dei diritti a chi non rispetta quelli delle donne non è giusto. Gli arabi non lo fanno. Come donna/come uomo che rispetta le donne io non li voglio in Italia.
Prima di essere uomo o donna un migrante è una persona. E per questo ha il diritto di essere accolta. Se poi saranno compiute delle violazioni, si dovrà valutare il caso, ma non può essere punito a priori. Inoltre i dati di violenza sulle donne sono piuttosto trasversali tra i Paesi.

Non è corretto concedere il permesso di soggiorno a chi non è entrato secondo le vie legali. Bisogna rimandarli a casa loro.
La legislazione italiana non facilita l’ingresso legale nel nostro Paese e questo è il motivo per cui il numero di ingressi illegali sono così alti.

Si devono aiutare i paesi di provenienza in cambio delle loro azioni per fermare i viaggi?
Occorre valutare quali sono le azioni che vengono intraprese per fermare i viaggi da parte del Paese d’origine. Se ci troviamo di fronte a una situazione analoga a quella sussistente in Libia, in cui i viaggi vengono fermati a prezzo di una sistematica violazione dei diritti umani, ovviamente l’aiuto economico non può essere giustificato.

Persone non abituate a rispettare la legge sono pericolose per la sicurezza degli italiani.
Non dobbiamo correre il rischio di generalizzare. Va valutato caso per caso, senza cadere in banali luoghi comuni.

Questo buonismo porta ad avere in Italia dei lavoratori stranieri che toglieranno il lavoro agli italiani. Non pensa che bisognerebbe dare sempre e in tutti i campi la priorità agli italiani?
Secondo le statistiche la maggior parte dei lavori svolti dagli immigrati è da qualche tempo abbandonata dagli italiani, perché troppo faticosi e sotto pagati. Inoltre, la stessa Confindustria richiede periodicamente manodopera straniera.

Tra i clandestini, la % di maschi è notevolmente superiore a quella delle donne. La % di stupri aumenterà per ovvi motivi. Dovremo chiudere le nostre donne in casa per proteggerle?
Non possiamo presumere la colpevolezza delle persone solo perché immigrati irregolari. Inoltre, più del 90% degli stupri sono perpetrati ad opera di familiari, amici e conoscenti delle vittime.


venerdì 5 agosto 2011

Intervista a Dagmawi autore del film documentario "Come un uomo sulla terra"che ha rotto il silenzio sugli accordi tra Italia e Libia.

Incontriamo Dagmawi Yimer il 24 luglio 2011 nella parrocchia locale di Lampedusa. C’è la proiezione del suo ultimo documentario "Soltanto Il Mare", su Lampedusa. Lampedusa è sempre rimasta nel suo cuore. Il suo film mostra un grande rispetto e curiosità per gli abitanti dell 'isola dove lui e centinaia di altri sono arrivati nel 2006 con una barca. Dopo un terribile viaggio dall’Etiopia, sua terra d'origine, attraverso il Sudan e Libia. Ha vissuto tutti gli orrori che tanti altri hanno sperimentato nei loro tentativi di trovare un pò di pace e sicurezza. Ecco perché ha fatto il film "Come un Uomo Sulla Terra"*Due giorni dopo, Valerio, Michela ed Pieter incontreranno Dag a l'aeroporto di Lampedusa, prima della sua partenza a Roma, la città dove vive dal 2006 come rifugiato riconosciuto per intervistarlo. Dag è uno dei tanti rifugiati africani che han preso la decisione difficile di lasciare il proprio paese per cercare protezione altrove. La  destinazione da sogno è di solito l'Europa.La maggior parte di loro non sanno cosa gli aspetterà. L'Italia ha firmato nel 2008 il "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione" con il leader libico Gheddafi, ma prima l'Italia aveva già concluso diversi accordi segreti con la Libia. L'intenzione era di mettere ostacoli nella via in cui i rifugiati si impegnano a raggiungere l'Europa. L'Europa dà il comando, la Libia mette gli ostacoli. Gli altri fanno i lavori sporchi per noi.
 Ma quali sono le storie umane dietro l'accordo tra Italia e Libia?
Come sono stati i vostri rapporti con le autorità libiche? “Ho provato umiliazione. Quando vieni arrestato 2 volte senza sapere perché, provi umiliazione. Quando ti mettono in una cella dove il bagno non ha lo scarico, ti senti umiliato. Quando non riesci a mangiare perché, oltre al fatto che il cibo  non é buono, gli odori nauseanti del wc non funzionante ti levano l appetito, ti senti umiliato. Quando la polizia ti bastona con ogni scusa perché magari non capisci la loro lingua, ti senti umiliato. Non capisci perché ti stia picchiando, non capisci l’ordine che ti ha dato e non sai dove hai sbagliato. Allora cerchi di fare cio che pensi di capire che loro vogliono.”

“Quando arrivi e vuoi chiedere tutela, ti danno un modulo e tu devi scrivere, costruire il tuo caso per la comissione (quella che valuterà se accettare la tua richiesta o meno) in poco tempo, ma sei ancora sotto shock. Non ti danno tempo per riprenderti per ricostruire la tua vita, per ricordare. Perché spesso ti dimentichi i momenti che hai vissuto da tanto sono brutti.”
 Dag in base al tuo vissuto come valuti le procedure adottata.“Io sono arrivato con altri etiopi che erano nella mia solita situazione, con il mio solito vissuto. Ma non a tutti hanno concesso la protezione umanitaria e mi sembra strano, sono stato fortunato. Ho la sensazione – ma questa é solo una mia personale opinione – che la commissione lavori a percentuale, che comunque piu’ di un certo numero di permessi non li diano anche se ne avrebbero diritto. Penso che molto dipenda dall interprete da come lui riesca a passare la stessa emozione.”
Qual é stato l impatto in Italia ed in particolare con le forze dell ordine?“Premettendo che la situazione all epoca era diversa da ora, non ho avuto problemi in termini di violenze fisiche. Ho ottenuto i documenti per il permesso in 2 mesi, anche se per il rinnovo i tempi si allungano molto circa  7 mesi. Comunque a Roma i poliziotti ti trattano in maniera umiliante. Possono fare e dirti quello che vogliono. Come quando mi ricordo che durante un rinnovo, mi chiedono di togliere la giacca per fare una foto, non capisco subito cosa vogliano e perché ma lo faccio ugualmente. Forse data la mia esitazione ho ricevuto insulti come ‘che cazzo combini’ e quando mi prendono le mie impronte digitali loro le guardano e dicono ridendo fra loro ‘che cazzo di impronta é’. Io penso solo che quella era la mia impronta e non poteva essere strana perche tutte le impronte sono diverse . Ti senti umiliato perché sai che non puoi reagire minimamente perché tutto peggiorerebbe.”
Dag ci spiega che i tempi di durata del permesso prima era di qualche mese ma oggi é aumentato. Chiediamo se ci potrebbe far  vedere i suoi documenti dato che non abbiamo mai visto un permesso di soggiorno per motivi di umanita.
Il suo documento è molto simile alla nostra carta d'identita:
al lato destro è apposta la sua foto e al lato sinistro si trovano i campi da riempire quali:
nome, cognome, data di nascita, altezza,colore occhi e capelli...
rabbrividiamo nel leggere a penna un, non descrivibile, "VEDI FOTO"...
 Ci spiega che un mese prima che scada, devi andare e lasciare il documento, per fare il rinnovo e loro ti consegnano un cedolino provvisorio. La procedura e molto lunga e Dag ci racconta che quando finalmente il permesso di soggiorno é rinnovato, il personale competente al momento di datare il timbro, non pone la data dell effettivo rilascio ma appongono quella del giorno in cui scadeva.
Cosa ti aspettavi una volta arrivato in Italia?
“Sapevo che sarebbe stato difficile tutto. Non ero sicuro di arrivare in Italia, non ero sicuro che mi avrebbero concesso protezione. Ma pensavo che una volta ottenuto il diritto di asilo l’accoglienza sarebbe stato maggiore, perche una volta che ottieni il permesso, il tuo percorso non é finito. Rimani comunque senza una casa, senza un lavoro. Il tutto é angosciante pensare diventa un lusso. Non hai tempo di rielaborare la tua vita che invece scorre un problema dopo l’altro. Siamo costantemente in viaggio. Non ti senti mai in pace.”



Dove pensi di essere e cosa pensi di fare da qui a 10 anni?

“Non lo posso dire. Non lo posso piu sapere quando ero giovane, non avrei mai pensato di andarmene via dal mio paese. Quando sono partito, non avrei pensato di vivere cio che ho vissuto ed ora non credo piu di poter progettare la mia vita in futuro. L’unica cosa certa é che ho una compagna  che aspetta un figlio da me e questo mi rende felice. Mi piacerebbe magari tornare in Etiopia per occuparmi li di cio che sto facendo qui informare e tutelare.”

Dag continua a sentirsi fortunato, perché sente in continuazione storie più drammatiche (stupri violenze). Si sente fortunato, perché puo raccontare cio che altri non hanno la possibilità di dire e di questo ringrazia le persone che lo hanno accolto, che gli sono stati vicino e gli hanno dato voce.


Pieter Stockmans
Michela Castiglione
Valerio Pascali * Il film "Come un Uomo Sulla Terra" ha rotto il silenzio, come nessun altro, sugli accordi tra Italia e Libia. Questo racconto in prima persona, rende la vergognosa estradizione di migliaia di uomini, donne e bambini verso un regime crudele e dittatoriale come la Libia, molto tangibile.  
Legge piu qui (traduzione Google Translate del'articolo in olandese): http://translate.google.be/translate?js=n&prev=_t&hl=nl&ie=UTF-8&layout=2&eotf=1&sl=nl&tl=it&u=http%3A%2F%2Faivl.blogspot.com%2F2011%2F08%2Fdagmawi-yimer-ethiopisch-vluchteling-en.html&act=url
 Michela, Valerio, Dag ed io